// di Francesco Cataldo Verrina //

Herbie Hancock alza un muro tra lui ed il resto di Umbria Jazz. Nonostante l’alto tasso qualitativo degli artisti presenti alla manifestazione, Hancock è di un’altra galassia, un punto di riferimento per chiunque ami il jazz moderno. Il pianista ha “banchettato” con gli Dei, rappresenta una parte cospicua del catalogo Blue Note, è stato decisivo al fianco di Miles Davis, ha visto e sentito cose che noi comuni mortali possiamo solo immaginare.
Il pianista è sorpreso da tanta folla che lo acclama, e sembra sincero quando dice: “Grazie Perugia, Umbria Jazz, ma tutta questa gente è davvero qui per me, non è che avete sbagliato serata? Io sono solo Herbie Hancock”. Ironia della sorte, le sue parole, mentre introduce i collaboratori descrivendone i pregi, diventano magnetiche: è un pezzo di storia che parla e racconta, potrebbe anche non suonare. Herbie scherza, gioca, libera qualche battuta, non sembra volersi prendere sul serio. Il primo momento da appuntare nella mente ad imperitura memoria è l’omaggio al suo fraterno amico Wayne Shorter con una dilatata versione di “Footprints” contenuta “Adam’s Apple” del 1966 e che il sassofonista aveva composto quando aveva solo 18 anni. Hancock e compagni stendono la tela a dismisura frugando negli impervi territori del modale spinto: gli assoli sono dilatati, l’ospite d’onore, Terence Blanchard, chiude bene gli spazi e spesso fa da collante in molti interplay. Il trombettista ha sempre confessato il suo amore per Clifford Brown, ma il modo di suonare è piuttosto hubbardiano, tant’è che se la cava egregiamente quando Hancock sposta il convoglio su un terreno decisamente più funkified.

La vera sorpresa del set, un autentico valore aggiunto, è il chitarrista Lionel Loueke, capace di coniugare un tocco ed un fraseggio ricco di spunti melodici ad un ottimo scat. Hancock lo guarda ammirato (è una sua scoperta) e lo asseconda con un comping da accademia del jazz, alternandosi tra pianoforte acustico e varie tastiere, una delle quali impostata come un organo che aggiunge un perfetto PH acido alle performance funk-fusion che, ad un certo punto, iniziano a prendere il sopravvento. Dal canto loro, il contrabbassista James Genused ed il batterista Justin Tyson sembrano a loro agio in questa mutevole giungla di sonorità, vocoder e groove sincopati.
Il repertorio non risulta facile ed immediato, specie per i tradizionalisti che si sarebbero aspettati i classici della Blue Note. Il pianista decide di camminare ai margini della sua discografia, spesso sul ciglio del burrone, tentando di unire gli estremi, soprattutto il basso elettrico e tutta la strumentazione elettronica creano un’ambientazione che guarda più al futuro che non al passato, specie quando il Nostro imbraccia la keytar, ossia la tastiera a tracolla. Hancock, per carattere, non si è mai guardato indietro e poi nel jazz non conta ciò che suoni, ma come lo suoni. Ad onor del vero, questo line-up non perde un colpo, a prescindere dalla scelta dei brani, che forse avrebbe potuto essere più “ruffiana”, in virtù di un’audience assai differenziata.
L’estate impazza e c’è spazio anche per una fresca fetta di melone. “Watermelon Man” che, dilatata all’inverosimile offre al gruppo la possibilità di innestare in quell’humus di tutto e di più, lunghi assoli ed ottimi scambi a rotazione. L’entusiasmo cresce ed il “cocomeraio” diventa il preludio al grande bis finale: una bordata di elettro-funk che scuote l’Arena Santa Giuliana la quale concede una meritata standing ovation. Il trasferimento della sensazione è perfettamente riuscito. 

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