// di Francesco Cataldo Verrina //

Nel 1990 Fresu e compagni vinsero il premio «Top Jazz» indetto dal mensile Musica Jazz come gruppo italiano dell’anno ed il Premio Arrigo Polillo per il miglior disco jazz con «Live in Montpellier» registrato in quintetto nel 1988 al Festival di Montpellier in Francia e pubblicato dalla Splasc(H) nel 1989. L’album consolidava il sinergico legame del line-up dopo alcuni album di assestamento pubblicati dalla stessa etichetta, ma soprattutto sanciva le nuove linee evolutive del jazz italiano di quegli anni.

Mentre dall’altra parte dell’Atlantico, sull’onda lunga del neo-tradizionalismo propugnato dai Fratelli Marsalis e dai «giovani leoni», in molti si addensavano su una jazz essenzialmente rip-off, che ricalcava quasi in toto gli schemi del passato, il quintetto di Fresu operava una scomposizione del tradizionale linguaggio del bop innestando in quell’humus sonoro nuove formule espressive e fertilizzanti creativi arricchiti dal grande serbatoio melodico mediterraneo.

Nel 1990 al quintetto si aggiunse anche il sassofonista Gianluigi Trovesi. Il 5+1 darà alle stampe l’album «Ossi di Seppia», che consacrerà Fresu e soci come una della più interessanti formazioni europee. L’album del trombettista di Berchidda rimane a tutt’oggi nella storia del jazz moderno come un monumento in omaggio a Monk, sicuramente uno dei migliori tributi indiretti all’estroverso pianista. «Ossi di Seppia» si sostanzia attraverso un post-bop fluido, fatto di incastri sonori non convenzionali forieri di un vena compositiva multi-strato che attinge al passato, attraverso una deregolamentazione creativa pienamente calata in un dimensione contemporanea.

Il sestetto si mostra in splendida forma sfruttando l’alchimia e l’affiatamento delle varie personalità, soprattutto il comune rodaggio di un’attività che durava da quasi dieci anni basata sulla conoscenza della la tradizione e sulla necessità di estenderne i confini. «Ossi di Seppia» contiene dieci tracce originali a cui contribuirono tutti i membri dell’organico, in particolare Roberto Cipelli, Attilio Zanchi e Trino Tracanna, anche se quantitativamente è Fresu a fare la parte del leone. Così l’album ne evidenzia anche il talento di compositore oltre che di esecutore.

Il titolo dell’album richiama alla mente un importante poeta italiano, Eugenio Montale, in una delle sue opere più conosciute, ma anche una raccolta atipica e non convenzionale di componimenti poetici rispetto al suo standard. L’impianto è molto simile ad un costrutto jazz, sicuramente sonoro, basta riprendere le parole del critico Vincenzo Mengaldo: «un susseguirsi di forme definite, si potrebbe parlare di un alternarsi musicale di movimenti più distesi e meditativi (come l’adagio di una sonata) e di sprazzi fulminei di immagini simboliche…»

Materialmente l’osso di seppia rappresenta lo scheletro di un animale morto che galleggia sulle onde, trascinato a riva come un inutile maceria. Nello specifico, potrebbe simboleggiare l’idea di un jazz che in quegli anni aveva subito di tutto e che cercava di risollevarsi da un cumulo di macerie, rigettato dal mare magnum della discografia completamente spolpato e scarnificato. «Ossi di Seppia» rappresenta l’idea di un jazz rimpolpato e rinnovato che partendo dall’osso, da una struttura base che ne rispetta la forma, lo reincarna e lo insangua di nuovi contenuti. Ci sono due titoli tra le tante poesie della raccolta di Montale che sintetizzano proprio l’idea del jazz: «Tentava la vostra mano la tastiera», ossia la possibilità di andare oltre e «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato», concetto che disegna la non regolarità del jazz ed il fattore improvvisativo.

Paolo Fresu

Già l’opener «Dungeons and Dragons» a firma Fresu è una dedica a Thelonius Monk, nonché una dichiarazione d’intenti, riportando in auge le atmosfere di «Brilliant Corners» con il suo movimento dinoccolato, basato su tempi intervallari. Tutte le composizioni sono impiantate su un substrato profondamente lirico come la title-track «Ossi di seppia», ancora a firma Fresu, che si dipana come una narrazione cinematografica poetica e descrittiva dove gli strumenti a fiato a rotazione diventano una sorta di voce fuori campo, a cui il piano e la retroguardia ritmica fanno da perfetto collante. «Appuntamento Sul Treno» di Fresu ha un sapore nostalgico di vacanze d’altri tempi dipingendo con mano esperta un quadretto sonoro basato sulle tinte e gli umori del jazz del Pacifico tipico degli anni ’50. «Opale» è una ballata mid-range insanguata di soul che, a metà del tratturo, l’elegiaco piano di Roberto Cipelli trasporta in una dimensione quasi cameristica con un lungo assolo da accademia del jazz moderno. «Rolling Car», con il suo tasso alcolico di swing ad alta gradazione, riverbera nell’aria un’inebriante atmosfera monkiana. «Born in the Zoo», scritta da Tino Tracanna ed introdotta dal clarinetto basso di Troversi, dissemina nell’aria schegge di melodia monkish assai frastagliata sul modello «Criss-Cross». «Notti di dicembre», firmata da Attilio Zanchi, è una ballata tenebrosa con un pianoforte in estasi, un tromba in sordina da mille e una notte ed un soprano che scava nell’anima, creando la classica atmosfera alla Bill Evans a cui è dedicata. «The Open Trio» con il suo continuo stop-and-go traccia un modello monkiano capovolto, dove l’intervallo ritmico contrasta con il più regolare flusso armonico del piano e la progressione melodica dei fiati, che a tratti sembrano ispirarsi al movimento della batteria di Ettore Fioravanti e del basso di Attilio Zanchi. Dopo la ripresa di «Rolling Car», l’album si chiude con «To M.» una ballata dall’intesso pathos imperniata su una melodia ancestrale quasi sospesa a mezz’aria. Qui Monk c’entra davvero poco, si direbbe più un simposio tra Bill Evan, Miles Davis e John Coltrane.

«Ossi di Seppia» è un album dai forti connotati creativi, dall’impianto melodico-armonico granitico ad opera di una band che viaggia attraverso una collaudata sinestesia espressiva e poetica; un omaggio ai miti e alle ombre del passato che riaffiorano come motore ispirativo, ma che finiscono per dissolversi in una più moderna, evoluta ed originale concezione del jazz.

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