// di Francesco Cataldo Verrina //

Ad Umbria Jazz si naviga in acque sicure. Dal fenomeno multitasking Christian McBride non puoi che aspettarti qualche sorpresa, che andrà ad aggiungere un altro tassello al puzzle di stima crescente che hai per lui. Nessuna sorpresa in merito alla qualità della proposta, il profilo dei musicisti sul palco è piuttosto alto, ma quello che colpisce è la formula propositiva e rappresentativa, che forse non tutti hanno compreso.

In verità non si tratta di un quintetto, ma una dimensione double-face, che a volte si unisce ed a volte si sdoppia per lasciare spazio ad un piano trio, che rende più visibili gli assoli del contrabbassista, con Peter Martin pianoforte e Carl Allen alla batteria. Diversamente si potrebbe parlare di un piano trio allargato a due punte anteriori: il sassofonista (alto e soprano), Steve Wilson, ed il vibrafonista, Warren Wolf. I due quando si accoppiano ricordano vagamente Jackie McLean e Bobby Hutcherson.

I musicisti americani ed afro-americani sono molto bravi a riempire e saturare la scena anche con la loro fisicità, non hanno bisogno di giustificare nulla, spiegare, raccontare: suonano la loro musica, ci sguazzano dentro come delfini in mare aperto, perpetuano una tradizione, sono sempre sul loro terreno di coltura, perfino quando calpestano terre lontane. Anche se Umbria Jazz, da quasi cinquant’anni, è la seconda casa di tanti autorevoli jazzisti di fama mondiale. Christian McBride lo riconosce e non a caso precisa: “Umbria Jazz, the most important festival in the world!”.

Il prolifico eclettismo di McBride è rinomato: l’inquieto bassista è forse il musicista di una certa generazione ad aver partecipato al maggior numero di sessioni, sia in formato acustico che elettrico, e rischia d’insidiare il primato dell’infaticabile veterano Ron Carter. Ciononostante, quando Christian McBride decide di suonare jazz allo stato dell’arte, lo fa con precisione, fedeltà e dedizione. Già nel 2007 l’allora giovane contrabbassista e band-leader aveva lanciato un nuovo quintetto chiamato Inside Straight con un live-set al leggendario Village Vanguard. Nel 2022 ritorna la formula “Inside Straight”. Gli uomini sono cambiati, ma la sostanza è la stessa: un post-bob infarcito di soul e swing, oggi si dice “groovin’”, suonato con precisione mercuriale e stampato su carta millimetrata. Fantasiose le improvvisazioni, ma senza fughe impossibili verso l’ignoto. Il Contrabbasso è quasi sempre il cardine dell’architettura sonora dei brani: le grandi dista di McBride scuotono le stringhe del basso con potenza e stile al contempo, producendo un walking incessante, ma con una capacità melodica da far invidia ad una chitarra. Il concetto di “Inside Straight” cattura bene l’estetica di questo line-up: va sia “dentro” una comoda dimensione groove, che “dritto” verso il blues.

Il materiale proposto è quasi tutto inedito è firmato dal band-leader e dai vari sidemen, i quali non si attardano su standard a presa rapida, ma su questi pezzi originali a tratti armonicamente complicati, i quali non si discostano mai dalla forma costruttiva, dalla scelta tonale della composizione tradizionale. Oltre tutto, la formula espositiva è quasi speculare in tutti i brani proposti: introduzione del tema, sempre ad appannaggio del piano o del contrabbasso, con una sola eccezione per il vibrafono. Sviluppo del tema da parte del sax, e poi assoli per tutti, ma senza viaggi nell’iperspazio. A un certo punto, i due centrali (sax e vibrafono) si allontanano, e come spiegato, in piano trio, per qualche minuto, si crea una seconda dimensione.

La complessità degli arrangiamenti e la mancanza di melodie conosciute viene agevolata dal “canto” del sassofono sempre accompagnato dal vibrafono. Il passaggio al soprano aggiunge qualche momento di pathos struggente. Sono esercizi ingegnosi per un quintetto ricercato e cerebrale, quindi foriero di un flusso sonoro non facile da metabolizzare da parte del pubblico, specie nella configurazione a tre. Per contro gli Inside suonano jazz, il loro jazz, con un tasso tecnico non comune: solo questo vale il prezzo del biglietto. La platea esplode e c’è perfino una mini standing ovation. McBride si conferma fenomenale sia negli assoli che nel comping, mentre il contrabbasso nelle sue mani diventa un giocattolo dal suono rotondo, melodico e fluido che si piega ai suoi voleri mettendosi al servizio della band.

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