// di Francesco Cataldo Verrina //

Cominciamo dall’atto finale della portentosa serata soul-funk-groove all’Arena Stanta Giuliana, quando Jean-Paul “Bluey” Maunick , storico leader e fondatore degli Incognito, durante il bis, porge un tributo a Bob Marley e dice: “siamo un’unica nazione musicale sotto il groove!”.

La serata, partita con un’energica e Dee Dee Bridgewater, accompagnata dalla The Memphis Soulphony, travolge la platea del Santa Giuliana, completa in ogni ordine di posti. A parte un piccolo problema tecnico, che blocca lo show per qualche minuto (deve essere riavviato il sound system), il ribollente flusso di soul-R&B produce un happening collettivo, la musica è contagiosa. La Bridgewater non canta jazz, ma fa un omaggio alla sua città natale, Memphis, capitale del cosiddetto “Memphis Sound” con un tributo ai grandi dell’R&B: Otis Redding, Aretha Franklin, Rufus Thomas, Ike & Tina Turner, Al Green, Bobby Blue Bland; perfino al conterraneo Elvis Presley, con una simpatica imitazione da parte della cantane, ma la sua interpretazione di “Don’t Be Cruel” viene calata in una dimensione robusta e tagliente ed affogata in un potente distillato di soul-funk con bordate di fiati da far tremare i polsi. Irresistibile la versione di “I Can’t Stand The Rain”, di cui Dee Dee cita quella di Tina Turner; per contro “Hound Dog , ripresa da Elvis, ma lanciata nel 1953 da Willie Mae “Big Mama” Thornton viene riportata alla vera essenza originaria del blues.

Dee Dee Bridgewater, il cui vero nome è Denise Eileen Garrett, la ragazza che aprì la prima edizione di Umbria Jazz nel 1973 al seguito dell’orchestra di Thad Jones e Mell Lewis, oggi è un’elegante signora 72 anni, da lungo tempo trasferitasi in Francia, una star mondiale con un palma res di riconoscimenti, premi e trofei da riempire un campo di calcio, che mantiene viva la tradizione di Ella Fitzgerald e Billie Holiday coniugandola ad un costante impegno civile e sociale, alternando jazz, blues, soul e spettacoli teatrali.

Sul main stage dell’Arena Santa Giuliana la cantante del Tennessee crea idealmente una rappresentazione della Soulville, con questo nome viene indicata Memphis, una delle grandi capitali della musica americana. La Bridgewater, con il sostegno anche recitativo e scenico della band, ironizza, ammicca, usa i doppi sensi erotici tipici della rinomata lascivia dell’R&B. Gioca con il sassofonista e parla di “sexphone”, mentre con le due corpulente coriste si abbandona a procaci ed ambigue movenze. Il pubblico è quello delle grandi occasioni: gradisce, ride, si diverte. La standing ovation è garantita e dopo il bis gran finale con un groove scandito, netto e tagliente ed uno speech che ricorda in qualche modo James Brown: Get up, Get on up! Insomma, tutti in piedi a ballare.

Dopo la pausa è il turno degli Incognito, la massima espressione di quello che viene comunemente chiamato Acid Jazz, ma che in realtà è una potente miscellanea di funk, soul, R&B, smooth jazz, reggae e ritmi latini. Bridgewater ed Incognito sono legati idealmente al comune denominatore della black music e della grande tradizione afro-americana. Gli incognito hanno di base un passaporto inglese, ma sono in realtà una comunità multietnica: ad esempio il fondatore Jean-Paul “Bluey” Maunick è originario delle isole Mauritius, nella band sono passati diversi vocalist di origine giamaicana, il batterista è italiano così come il novello tastierista, lodato dal leader il quale dice di lui: in tre o quattro giorni ha imparato tutto il set.

Gli Incognito sono da sempre una comunità aperta e multi-razziale con una spettacolare sezione fiati ed un impianto percussivo che non concede tregua agli astanti. Sprazzi di jazz negli strumentali e nelle belle improvvisazioni degli ottoni e delle ance. Il pubblico, molti giovani, gradisce mentre la band si scalda progressivamente arrivando alle perle del suo repertorio come “Always There”, ma il santa Giuliana esplode con la riproposta della cover di Stevie Wonder “Don’t Worry About The Thing”, altro cavallo di battaglia della band, con tanto di finale “ballato”. Il momento più toccante è certamente il tributo a Pino Daniele, artista amato dal leader Jean-Paul, il quale ricorda la propria adolescenza, quando scoprì la musica italiana, in particolare i Napoli Centrale di James Senese e Pino Daniele. “Che male c’è” viene intonata da tutta la platea. In fondo Napoli è un hub che, da sempre, collega l’Africa alle Americhe. Ad Umbria Jazz, dove non c’è jazz, c’è tanto groove e lo spettacolo è assicurato!

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