// di Francesco Cataldo Verrina //

In un’altra epoca avremmo usato il termine fusion per definire «The Crossing» di Enzo Favata, un lavoro che sfugge ad ogni ristretta catalogazione di tipo tradizionale e, man mano che si procede nell’ascolto, gli orizzonti cognitivi si espandono in un melting-pot sonoro che unisce ed incrocia le musiche e di suoni di mondi possibili, perfino immaginari. Le trame musicali a volte sembrano sospese, quasi a voler indicare innumerevoli vie di approdo, ma senza dare particolari punti di riferimento al fruitore. «The Crossing» è un labirinto magico in cui è possibile trovate una via d’uscita, ma seguendo percorsi diversi, a seconda dello stato d’animo. Parliamo di un disco che induce dapprima valutazioni e percezioni di tipo sensoriale e poi musicale, ma soprattutto a cui è difficile rimanere indifferenti.

La stampa giapponese è stata molto calibrata in merito, definendo l’album in maniera alquanto esaustiva: «Una musica visionaria, al sapore selvatico del Mediterraneo, che si lega con ritmi ipnotici dell’Etiopia e alle atmosfere balinesi, miscelate da un sapiente uso dell’elettronica e dell’improvvisazione, una poesia dalla potenza sonora unica». La sintesi nipponica mette in luce l’ampia visione musicale del sassofonista sardo e dei suoi sodali: Pasquale Mirra al vibrafono, marimba midi e Fender Rhodes, Rosa Brunello al Fender Bass, Marco Frattini batteria e percussioni. Enzo Favata, oltre a suonare il sax (e derivati), ha curato gli arrangiamenti, scelto i samples e guidato il theremin, uno strumento elettronico che non ha bisogno di contato fisico, ma si basa su una sorta di oscillazione del campo magnetico.

Scorrendo l’album che si apre con «Roots», un brano dei Nucleus di Ian Carr, ci troviamo di fronte ad un jazz-rock cosmico, diluito da colori mediterranei e magnificato dai ritmi del Sud del mondo, ma quelle radici sembrano affondare velocemente ed spandersi in ogni direzione, mentre lo sviluppo ritmico e la progressione melodica arrivano come un’onda in crescendo, con il sax che traccia il percorso come un perfetto navigatore satellitare, al fine di evitare che l’ascoltatore si perda fra le innumerevoli suggestioni sonore e le continue variazioni di tempo e di umore, specie nella terza parte del brano che sembra un preludio al successivo «Turn». Bisogna considerare che l’album arriva dopo due anni di concerti e partecipazione a festival tra Inghilterra, Giappone, Asia, Sud America ed è in gran parte registrato dal vivo. «The Crossing è anche il nome della band che avevo in mente di costituire da molto tempo – spiega il jazzista sardo – Per scrivere e creare la musica anche con l’elettronica, avevo bisogno di trovare dei jazzisti che avessero un nuovo modo di porsi nel trattare i materiali musicali, che fossero liberi, padroni del jazz e di altri linguaggi. L’equilibrio ed il grande intreplay che si è creato dopo varie tournée con Rosa Brunello, Marco Frattini e Pasquale Mirra, è quello di una vera e propria band e lo si sente sul palco. Non volendo perdere le good vibrations dei concerti, tutto è stato trasferito anche sull’album in studio».

Con «Turn» si spalancano le porte di un universo sospeso ed impalpabile, quasi onirico, dove il fiabesco suono del vibrafono accoglie le istanze del saxello, (strumento a metà strada tra un sax ed un clarinetto), che prosegue in una narrazione ricca di moderna poesia e dalle intense vibrazioni, quasi come se il mondo di suoni girasse su sé stesso. «Ho deciso di riportare un’atmosfera live direttamente dal palco sull’album.» – aggiunge Favata – «Passando dallo studio solo per aggiungere alcune parti dell’arrangiamento con tastiere analogiche che hanno caratterizzato il suono degli anni ’70 coinvolgendo altri musicisti in sala di registrazione, per creare dei piccoli camei orchestrali inseriti negli arrangiamenti. Quattro brani su sei sono stati registrati nell’estate 2020 durante un tour in Italia, in studio sono state fatte registrazioni addizionali lasciando totalmente l’energia del live. Mi sono avvalso di straordinari ospiti come Salvatore Maiore, Marcello Peghin, Maria Vicentini, Ilaria Pilar Patassini e la virtuosa dello guzheng, la cinese Zhan Qian, con cui ho tenuto concerti in Cina».

«Salt Way», racconta idealmente della «via del sale» della Dancalia nel Corno d’Africa. Atmosfere flessuose ed orientali si mescolano a suggestioni quasi documentaristiche con un insieme di fotogrammi sonori ripresi da tante angolazioni e regolati da Favata con la sapienza di un perfetto demiurgo. «For Turiya» di Charlie Haden procede a passo felpato, inabissandosi in una morbida, quasi limacciose palude di percussioni, su cui il sax del band-leader sembra camminare a pelo d’acqua, sostenuto dalla tensione superficiale di una melodia pervasiva e dal divorante pathos. «All Names» è una lunga Odissea sonora che apre scenari su terre lontane ed esotiche, le quali oltrepassano gli emisferi, attraverso una danza divinatoria scandita dalle percussioni e propiziata dal sax che canta ed incanta come in un rito apotropaico. Citando Battiato, si riesce ad averne una chiara visione: «Voglio vederti danzare come le zingare del deserto con candelabri in testa, o come le Balinesi nei giorni di festa».

«Black Lives Matter» in un piccolo tempo pone l’accento su un grande problema, e non sono tanti i musicisti italiani che hanno evidenziato questo atavico problema, ossia i sempre calpestati diritti civili degli Afro-americani che, in realtà, esistono solo sulla carta. Favata è l’unico ad averlo fatto insieme ad alcuni americani come Ambrose Akinmusire ed il vecchio Archie Shepp. Atmosfere urbane dove suoni, ritmi e voci di militanti ed eroi neri s’incrociano, mentre il sax soprano urla il suo disappunto per un problema che sembra non trovare soluzione. L’album si chiude con «Oasis», un miraggio che illumina il punto di confluenza di lontane civiltà sonore, mentre carovane di viandanti attraversano, per circa dodici minuti, un deserto popolato da uomini, storie e leggende, dove il clarinetto basso di Favata, che si cimenta su scale modali di matrice subsahariana, distilla una melodia granulosa e tensioattiva. «The Crossing», edito da Niafunken, è un album unico nel genere, capace di abbassare le difese immunitarie del fruitore aprendolo a nuove consapevolezze, attraverso l’incontro di razze sonore meticce ed incrociate, sostenuto da un solido concept strumentale e filosofico.

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