// di Francesco Cataldo Verrina //

Niccolò Paganini, uno dei maggiori violinisti di tutte le epoche e allo stesso tempo uno degli artisti più chiacchierati della storia, rappresenta il virtuoso per eccellenza. ma come tutti i grandi fu genio e sregolatezza, ossia imprevedibile, incontenibile, inimitabile. Un personaggio free jazz ante-litteram, con un atteggiamento punk come scrisse qualcuno, «frequentatore di pentagrammi estremi assai cari a Lucifero». Al netto di ogni considerazione, va detto che il violinista genovese continua ad essere un personaggio sempre attuale, poiché ha anticipato di almeno centocinquant’anni la figura del musicista e dell’esecutore moderno. Paganini è stato jazz, rock, punk, hip-hop, prima di ogni altro. La sua destrezza, a dir poco acrobatica, e le risorse singolari della sua tecnica erano il frutto di un talento innato che oltrepassava i limiti dell’uomo comune. Paganini si distingueva per una fisicità imperfetta dovuta alla malattia, era claudicante, vestiva quasi sempre di nero, ma era attrattivo e spettacolare perché sapeva metteva in scena sé stesso e le sue abilità, diventando la spettacolarizzazione si sé stesso come accade nel jazz o nel rock, producendo meraviglia e incanto, elementi in grado di affascinare e sedurre il pubblico, a tal punto da essere considerato sovrumano ed il prodotto di un patto col diavolo, mentre la sua figura si ammanta di un alone di leggenda. Per questo ed altro ancora, come è accaduto per il progetto «Paganini in Jazz», pubblicato da Alfa Music, Paganini può diventare tranquillamente una terra di confine tra linguaggi e moduli espressivi moderni.

Il suo fascino ammaliante attirava donne di differente estrazione e, durante le performance, suscitava (come dicono gli psicologi) una «μανία», una sorta di invasamento collettivo negli ascoltatori, quasi come negli adepti ad una danza tribale o ad un rito iniziatico, molto prima che le scene d’isteria collettiva investissero i Beatles o Elvis Presley. Anche il blues veniva chiamata la musica del diavolo e in ambito rock, molti decenni più tardi, si parlo di artisti che praticavano riti magici e satanici. I Rolling Stones cantavano «Sympathy For The Devil». Eddie Van Halen era chiamato il Paganini della chitarra elettrica: Paganini, dunque, come sinonimo di talento assoluto ed estremo. Quindi potremmo tranquillamente dire che Charlie Parker o John Coltrane siano stati i Paganini del jazz, ma potremmo elencarne un’infinita: Charles Mingus, Miles Davis, Ornette Coleman, Dexter Gordon, Sonny Rollins, Bud Powell, Thelonious Monk e via discorrendo, alcuni oltremodo con un carattere non facile proprio come quello di violinista. Festinese sostiene che «Paganini era una «rock-star dell’ottocento […], l’anticipatore di atteggiamenti sul palcoscenico che il mondo della popular music, cent’anni dopo, avrebbe quasi istituzionalizzato». L’aspetto esteriore del geniale violinista, sia pure non perfetto, ebbe molta presa sul pubblico, tant’è che nella jet-society viennese di allora erano di gran voga i guanti o le cravatte alla Paganini; molti uomini ne imitavano il taglio di capelli e, sempre a Vienna, la banconota da cinque fiorini veniva chiamata Paganinerl (Paganinetto).

Dal canto suo un secolo prima Conestabile scriveva: «L’arte di Paganini è un’arte separata, che nacque con esso lui, e di cui trascinò il secreto fra l’oscurità della tomba». Misurarsi, dunque, con l’opera di Paganini è sempre una battaglia aperta, soprattutto l’idea di collocarlo in una zona di confine tra jazz e classica, oltre che un’ardua impresa deve essere stata una singolare tenzone per i produttori di «Paganini in Jazz». Sfida oltremodo riuscita per l’Orchestra dell’Istituzione Sinfonica Abruzzese, per il direttore Roberto Molinelli, il primo violino (solista) Ettore Pellegrino e per il Trio Nosso Brasil formato da Gianluca Persichetti chitarra, Stefano Cantarano Basso e Stefano Rossini batteria. Sul famoso detto «paganini non ripete» ci sarebbero alcune considerazioni da fare. Si dice che tale motto sia nato dal suo rifiuto di concedere un bis Carlo Felice di Savoia che, ne febbraio del 1818, assistette ad una sua esibizione, ma i critici più attenti sostengono che si riferisca al fatto che l’inquieto violinista improvvisasse continuamente e che quindi non fosse in grado di ripetere alla lettera la medesima esecuzione o che si annoiasse a farlo. In tutto questo c’è la vera essenza jazz del Paganini, che forse più di ogni altro musicista classico può essere ricontestualizzato nell’ambito di una «terza via», ovviamente molto incerta e precaria, nel senso che gli equilibri sonori devono essere calibrati bene, proprio ciò che l’ensemble guidato da Roberto Molinelli è riuscito a cogliere in pieno, creando intorno alla musica di Paganini una sorta di quadratura del cerchio, soprattutto l’orchestrazione creata dal Molinelli per i «Capricci» classici tende a ricercare qualcosa che non sia necessariamente riconducibile agli schemi armonici tipici dell’epoca di composizione.

L’album è suddiviso in due lunghe suite per violino, jazz trio e orchestra in cui il gancio attrattivo risiede nella straordinaria duttilità del violinista, Ettore Pellegrino, il quale dimostra di essere in grado di alternare l’esecuzione classica dei «Capricci» accompagnata dall’orchestra e la riscrittura di ognuno di essi in versione jazz, nella quale viene concesso ampio e spazio all’improvvisazione tematica legata ai ritmi latinoamericani, magnificati dalla presenza del Trio Nosso Brasil. A parte le «SUITE I è II per Violino, Jazz Trio e Orchestra», l’album contiene anche un lungo frammento sonoro, forse quello più vicino al jazz e alla musica contemporanea d’ispirazione latina «SWINGIN’ 24 per Jazz Trio e Orchestra». Nel complesso risulta assai coinvolgente la trasposizione jazz dei «Capricci» partendo da alcuni ritmi tipici brasiliani e sudamericani, come samba, bossa, choro, afoxè, marcha rancho e tango, soprattutto per l’uso di un impianto jazzistico, dove la forma scelta è quella classica A-B-A, con esposizione, improvvisazioni dei solisti e ripresa, con coda finale. L’ottima sezione ritmica del Trio Nosso Brasil, formato da Gianluca Persichetti chitarra, Stefano Cantarano Basso e Stefano Rossini batteria, conferisce al progetto quel tocco di contemporaneità ed anche d’ironia per non rimanere intrappolati nelle spire di un irripetibile Paganini se preso troppo sul serio.

Per contro, «Capriccio n. 24 per Orchestra» è proposto per sola orchestra ed usufruisce degli assoli delle ottime prime parti della Sinfonica Abruzzese, alla quale sono stati affidati i vari ponti musicali di collegamento all’interno delle due suites principali e dell’intero costrutto sonoro. «Paganini in Jazz» è un disco non comune è giocato su armonie completamente diverse dalle originali. Le composizioni sono state ripensate in uno stile spesso mutevole e ricollocando in altri ambiti sonori e musicali, usando la tecnica della variazione che ha portato a sperimentare linguaggi e moduli diversi, ricorrendo anche all’utilizzo di strumenti non comuni nelle sale da concerto, come il Pandeiro. Ottima la compliance e la sinergia tra l’Orchestra dell’Istituzione Sinfonica Abruzzese diretta da Roberto Molinelli, il violinista Ettore Pellegrino ed il Trio Nosso Brasil.

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