// di Bounty Miller //

Se nel jazz moderno il swing è il ritmo, il soul lo spirito guida, il funk è il nerbo, un fermento attivo, uno scudiscio sferzante di energia che produce il cosiddetto groove, un misto di anima e beating. Figlio del padre blues, della stessa sostanza del padre, generato non creato, il funk è stato un elemento cardine soprattutto nell’evoluzione dell’hard-bop. La copertina del disco che vedete «One Nation Under A Groove» dei Funkdelic, figli sui generis di quell’ala dissenziente ed antagonista del funk, nata molti anni dopo da un costola della «new thing», è presa solo a pretesto. Come ogni espressione della musica afro-americana, il funk nasce e si sviluppa nei quartieri malfamati delle periferie urbane delle metropoli statunitensi, risucchiando e catalizzando gli umori, la rabbia e le frustrazioni della gente di colore.

Il termine «funk» inizia a circolare negli USA negli anni ’50 con riferimento alle caratteristiche ritmiche e sonore presenti in diversi ambiti musicali: nel jazz, ad esempio, veniva riferito ad un approccio musicale rude, poco affinato, scevro da qualsiasi sofisticazione, legato al Rhythm & Blues, con riffs ossessivi e taglienti ed un ritmo sempre in crescendo. In seguito, particolarmente negli anni ’70, l’aggettivo «funky» venne utilizzato con frequenza anche in altri settori della black-music come il soul e la disco-music. Sembra che nello slang degli afro-americani il sostantivo funk (ed il suo aggettivo funky) indicasse l’odore sprigionato dal corpo in stato di eccitazione durante il ballo; poteva, inoltre, significare «terrore» o essere usato in luogo di «sexy», «attraente» o «libero da inibizioni sessuali». Per comprendere l’esatto significato del fenomeno – come già spiegato – non vanno tralasciati i suoi stretti legami con le problematiche razziali dell’epoca: da una rivoluzione sociale si sprigionò una sorta rivoluzione ritmica.

In America, il funk cominciò a rappresentare quella musica per cui un «nero» non era più costretto a vergognarsi ad ammettere di avere le proprie radici in Africa; al contrario, divenne un contrassegno distintivo e una forte spinta propulsiva all’orgoglio di razza. La forte ostentazione di un abbigliamento sgargiante, dai colori talvolta stridenti, che condizionò in parte la moda degli anni ’60 e ’70, ed il ricorso a capigliature di tipo afro furono due segnali estetici molto evidenti. Le prime avvisaglie di funk. come vero e proprio genere musicale, si materializzarono a partire dalla seconda metà degli anni ‘60. Il termine fece la sua comparsa ufficiale nell’universo della «musica giovanile» in un brano del 1967 di Dyke And The Blazers «Funky Broadway», ripreso più volte nel corso degli anni.

Gli studiosi, gli archivisti e i catalogatori del genere sono propensi ad attribuire una sorta di paternità ideale a George Clinton che, a partire dai primi anni ’70, nella duplice veste di leader dei Parliaments e dei Funkadelic, incominciò ad esibirsi in trascinanti live-show, dopo essersi auto-proclamato quale sommo pontefice della religione «della giungla e della strada», dottrina nata per affrancare gli umani dalle forze negative di un mondo senza funk. Il terreno di battaglia di Gorge Clinton era il cosiddetto «P-Funk», forma abbreviata di «Pure Funk», ossia il funk alla massima potenza e nella sua forma più pura. La trovata geniale di quel periodo fu l’utilizzo del talkbox, un modificatore di voce, (fino a quel momento utilizzato solo in sincrono con le chitarre da alcuni gruppi rock,) collegato da un lato ad un piano e dall’altro alla bocca, al fine creare sonorità arcane ed avvolgenti.

Lo stesso James Brown, artista che vantava una lunga militanza tra le fila del soul-R&B, in quegli anni diede una virata al proprio stile, adottando gli stilemi tipici del funk: linee di basso incalzanti e sincopate (esaltate in alcuni dischi di quegli anni dai virtuosismi di bassisti come Sly Stone o Larry Graham), riffs di chitarra elettrica taglienti e sincopati, veloci incursioni di sezioni fiati e ballabilità immediata, largo spazio alle suite strumentali o a lunghi breaks ed assoli. Negli stessi ambienti jazz, l’aggettivo funky prese ad indicare dapprima alcuni processi di fusione musicale tra jazz, funk e blues (il cosiddetto hard-bop, nella variante soul-jazz con un massiccio impiego dell’organo Hammond); in seguito, più in generale, uno stile jazz influenzato dal funk anni settanta e dal rock, definito più semplicemente «fusion», che investì trasversalmente personaggi di varia provenienza: Miles Davis, E.W.&.F., Quincy Jones, Mandrill, Donald Byrd, Wayne Shorter. Lee Dorsey, Herbie Hancock, Horace Silver, Locksmith, Lonnie Liston, Johnny Guitar Watson, Chick Corea, Grover Washington, Eumir Deodato, Kool & The Gang (prima maniera) George Duke, George Benson, Stanley Clarke, solo per citarne alcuni.

Ciononostante, il funk, a causa della ristrettezza mentale di una certa critica, inconsciamente succuba dell’industria discografica ed innamorata di «tutti quei cantanti con le facce da bambini ed i loro cuori infranti» o di certi cantastorie con la chitarrina della prima comunione e la voce afona da laringite cronica, tendente alla stonatura, non sia stato mai omologato per importanza al jazz ed al rock. Al funk, nel periodo di massima divulgazione ed affermazione, a cavallo tra la prima e seconda metà degli anni ’70, qualcuno non perdona, il fatto di aver sposato la causa della «disco», commettendo un altro grande errore di valutazione storica. Sicuramente, dalla parte «testuale» dei dischi funky non si evincevano strabilianti evoluzioni poetiche, raffinate invettive politiche, inni alla pace universale: l’unica musa ispiratrice di tutti quegli artisti di colore erano i sobborghi delle metropoli, la rabbia per le discriminazioni sociali e razziali, la frustrazione per le violenze che infestavano certi quartieri delle periferie urbane. Davvero, un peccato non aver compreso in tempo (anche se oggi, a posteriori, c’è un tentativo di rivalutazione del fenomeno) che in quella musica rude e muscolare ci fosse il riscatto di un intero popolo, che manifestava rabbia e disappunto attraverso i taglienti riffs delle chitarre, l’incedere irrefrenabile del basso e delle percussioni. Il fatto che il funk si sia infilato in discoteca quasi di diritto o per una naturale inclinazione al «ballo ritmico» che, sin dalle piantagioni di cotone, contraddistingue tutte le musiche e gli elementi sonori di matrice afro-americana, non avrebbe dovuto, né deve sminuirne la portata storica.

Non tutti lo sanno, ma fino agli anni ’70 ed oltre, i musicisti neri erano «segregati» alle sole classifiche R&B, innumerevoli stazioni radiofoniche americane, salvo qualche eccezione, non passano un determinato tipo di dischi o di canzoni, molti spazi erano riservati alle sole esibizioni di gruppi pop-rock. La discoteca, per la musica funky, divenne come una sorta di «refugium», ma allo stesso tempo un naturale teatro, un terreno di coltura e di evoluzione. Lungi dal voler fare apologie, crociate, riesumazione di cadaveri eccellenti, anche perché, gli unici «fermenti» musicali vivi, attuali e vitali (leggasi hip-hop) sono legati alla black-muisc e ad un filamento genetico di DNA di tipo funk, ci piacerebbe che al fenomeno funk venisse riconosciuta l’importanza globale che merita e che storicamente gli spetta di diritto, ma non solo quando s’imparenta (o meglio, laddove si sia ibridato) con i fratellastri del jazz o con i cugini del rock.

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