// di Francesco Cataldo Verrina //

Lo stereotipo calcificato nella mente di molti critici per lunghi anni ha ostruito molte vie di accesso al jazz, impedendone a volte la divulgazione. Il luogo comune, la paura di quei nomi islamici, che spesso mettevano e mettono in soggezione colui che, oltre a sapere di musica, dovrebbe avere anche qualche piccolo rudimento di storia, filosofia, teologia, sociologia. Yusef Lateef, il cui vero nome era William Emanuel Huddleston , ha pagato come tanti una sua diversità, che in primis nasceva dal fatto di essere nero, ma soprattutto schierato, politicizzato, militante e sostenitore di una religione che di base metteva in discussione l’idea di un mondo dominato dai bianchi e dalla cultura Nordeuropea.

Lateef sottolineava un aspetto interessante del suo approccio religioso, certamente più sano e meno autodistruttivo, legato al Movimento Ahmadiyya dell’Islam, fondato in India da Mirza Ghulam Ahmad di Qadian: «Attraverso cinque preghiere quotidiane, uno poteva avere la consapevolezza di Dio come suo aiutante terrestre, mentre le inclinazioni naturali dell’individuo veniva indirizzate nei canali più appropriati come lo studio, la saggezza, il rispetto del diverso; naturalmente c’era il divieto di drogarsi, di bere e di sballarsi. Ed erano tutte cose positive. Alla fine mi sono detto che era stato meglio dedicarmi alla religione, piuttosto che rifugiarmi nei paradisi artificiali. Così, quando mi sono unito a Diz, a New York, facevano le riunioni a casa di Abdullah Buhaina, che tutti conoscevano come Art Blakey». Yusef Lateef non si è mai accontentato di usare la musica come mero intrattenimento, ma piuttosto come uno stimolo alla riflessione: una costante incoraggiamento per il «suo popolo» ad impegnare le orecchie, le gambe, ma soprattutto la mente. Questo approccio è già ben evidenziato nel rivoluzionario album di debutto come leader, non a caso intitolato «Jazz For The Thinker», letteralmente «jazz per il pensatore». A differenza della maggior parte dei dischi d’esordio degli anni ’50, che si basavano su una manciata di standard sicuri e rodati, questo lavoro è costituito interamente da composizioni originali di Lateef, a dimostrazione di quanto fosse già un musicista ed un uomo con una visione ben definita della musica e della realtà circostante.

«Jazz For The Thinker» si sviluppa attraverso una miscela pionieristica e multistrumentale di jazz moderno frammista a qualche elemento afro-orientale. In questo set Lateef al sax tenore, è sostenuto da Curtis Fuller al trombone, Hugh Lawson al piano, Ernie Farrow al basso, Louis Hayes alla batteria e Doug Watkins finger cymbals e percussioni. «Jazz For The Thinker», pur essendo sfuggito al controllo dei radar, è un album anticipatore e visionario che esplora una gamma di variazioni tematiche. L’opener «Happyology», un lunghissimo componimenti, per quei tempi una scelta molto avventurosa, si apre con un andamento tribale segnato da un ripetitivo canto africano, per poi esplodere improvvisamente in un hard bop dai contrafforti modali, dove il sax di Yusef è già post-Coltrane dieci anni prima che in tanti ne capissero il meccanismo.

Il contrappunto ed il contrasto fra il trombone di Fuller ed il sax del leader sviluppano quasi un’atmosfera mingusiana, per poi dipanarsi e dissolversi in finale esotico, con un sezione ritmica che sembra trovare linfa ed ispirazione nella percussività tipica delle tribù africane. A seguire «O’ Blues», altra composizione che sembra puntare sulla narrazione espansa, disegnando la tipica atmosfera urbana, avvolta nel tipico mood di Chicago più che di New York, dove il sangue blues viene modalizzato dal sax di Lateef con un movimento serpentino e angolare, mentre la retroguardia fornisce un leggero e cadenzato groove dai connotati funkfied. Yusef era un pensatore riflessivo ed erudito, ma emotivamente convinto ed in grado di addentrarsi in territori musicali alquanto sfaccettati ed impervi. «Midday» apre la B-Side, tentando di trasportare il swing ed il blues in una dimensione più moderna, dilatandone i tempi ed offrendo a tutti i musicisti uno spazio espositivo, attraverso una piacevole staffetta che a tre quarti del tracciato si addensa in una costruzione quasi orchestrale alla Mingus. «Polarity» è mid-range in crescendo che sfida i preconcetti ed i luoghi comuni sull’uso del sassofono (siamo nell’anno di grazia 1957).

L’ottima sezione ritmica consente a Lateef di muoversi in più direzioni creando una polarità simmetrica e planando sul costrutto melodico con raffiche provenienti da differenti emisferi creativi, mentre il pianista Hugh Lawson ed il trombone di Fuller allargano la pista di atterraggio. «Space» è un hard bop collocato su avamposto strategico quasi come se stesse fiutando la direzione e «la forma del jazz che varrà». In futuro Yusef Lateef avrebbe prodotto dischi avveniristici mescolano bop, blues, gospel, musica orientale, indiana ed africana funk, pop, free, classica e etnica. Per lui la musica non sarà mai dettata da limitazioni demografiche e geografiche, confermandosi come uno dei tenoristi dal suono fortemente personale, nonché uno dei migliori flautisti, ma farà proseliti cantando, suonando le percussioni ed improvvisando sullo shannai indiano, l’oboe, i flauti esotici e l’arghul, uno strumento siriano a due canne.

«Jazz For The Thinker», pubblicato dalla Savoy nel 1957, è una album che traccia i contorni di una formula boppistica già molto avanti nel tempo, evidenziando la genialità di un personaggio unico nell’ambito del jazz moderno; soprattutto, per il livello delle intuizioni musicali, le capacità compositive e gestionali del titolare, è un lavoro che travalica di molto il concetto di album d’esordio. Sosteneva, Lateef: «Per me questa è la caratteristica del jazz: suonare come sé stessi, e John Coltrane lo stava facendo, ecco perché ha attirato la mia attenzione. È proprio come quando ci si dedica alla composizione, se qualcuno ha scritto una sinfonia come la Nona di Beethoven, qual è la sua realizzazione? Voglio dire, noi potremmo ascoltare Beethoven, anziché il nuovo compositore che scrive come lui. Sono le cose uniche che si distinguono come contributi alla cultura».

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