Anche chi non ha mai approfondito la conoscenza di Scott LaFaro sa che è stato uno dei bassisti più geniali della storia del jazz moderno. Una vita breve, spezzata anzitempo all’alba del 6 luglio 1961 da un tragico incidente stradale che vanificò tutti i sogni e le speranze di un talento senza eguali. Spesso associato a Bill Evans insieme al quale fu protagonista di alcuni album epocali, Scott LaFaro, forse in quell’esiguo spazio che il fato concesse alla sua arte, fu molto di più, ed avrebbe potuto diventare uno dei fenomeni più emblematici del jazz di tutte le epoche. Al netto della carica mitopoietica che ammanta tutti gli artisti strappati al mondo degli uomini prematuramente, intorno ai quali spesso fioriscono leggende e surreali aneddoti, Vincenzo Staiano, autore del saggio «Solid. Quel diavolo di Scott LaFaro», ne traccia un profilo artistico ed umano quanto mai veritiero e documentato, attraverso interviste e testimonianze dirette di colleghi, familiari e conoscenti, al fine di creare una ricostruzione meticolosa che esula da ogni agiografismo di maniera o esaltazione dovuta ad un’ammirazione incondizionata.

Il libro di Staiano è la vera storia di LaFaro, essenzialmente legata alla sua attività di musicista, ma non è una biografia cronologica. «Solid» si concentra principalmente sull’esame di alcuni eventi che spiegano l’originalità e la complessità del bassista, specie nel periodo che dal 1955, anno in cui lascia l’Università di Itaca iniziando il suo primo tour come musicista professionista, fino al momento del tragico incidente in cui perse la vita a soli 25 anni. Una vita non facile da ricostruire, data l’esiguità delle fonti, ma la perizia ricostruttiva, sia pur focalizzata su taluni momenti, unità ad un’agilità narrativa non comune, rendono la lettura e la fruizione scorrevole, pur trattandosi di un racconto ancor aperto, di cui si conosce il finale, ma che lascia presagire l’innesto di nuovi dettagli e documenti relativi soprattutto alle origini italiane e, nello specifico, calabresi dello sfortunato bassista.

A livello strettamente biografico, ci sono solo alcuni passaggi che ricordano il periodo della sua infanzia e la storia inedita dei nonni paterni emigrati negli Stati Uniti dalla Calabria. I dati sono forniti da alcuni autorevoli studiosi americani e francesi. Si tratta di materiale totalmente inedito in Italia e tradotto dall’autore, come un messaggio inviato a Scott da Miles Davis, attraverso una cartolina di saluti con la quale il celebre trombettista gli fa capire che lo avrebbe voluto come contrabbassista nella sua formazione. L’amore di Vincenzo Staiano, per LaFaro non è cosa recente come riportato nella prefazione del libro. L’influenza di LaFaro sui bassisti di ogni generazione fu notevole, come conferma Giovanni Tommaso nella prefazione al libro: «Ho ascoltato Bill Evans dal vivo alcune volte, ma purtroppo mai con Scott LaFaro. La prima volta fu nel 1964 a New York, allora c’era al basso Chuck Israel. Quando comprai il disco «Live At Village Vanguard» ebbi la folgorazione, credo fosse il 1962. Scott suonava in un modo mai sentito prima. Aveva un sound molto particolare e un linguaggio contrappuntistico col piano che nel jazz non si era mai sentito. Inoltre, nei suoi interventi solistici metteva in luce una tecnica virtuosistica veramente notevole. Naturalmente quel sound mi affascinava, avevo poco più di 20 anni e volevo assolutamente riprodurre quel sound, così riuscii a trovare le stesse corde che usava lui e credo di esserci andato molto vicino, anche se dopo un po’ di tempo sentii il bisogno di trovare una mia identità».

Sulla tecnica si Scott LaFaro si è scritto molto: un tocco potente che frustava le corde del contrabbasso, producendo un suono pulito, chiaro e leggibile, che sfidava le convenzioni armoniche dell’epoca, ma soprattutto «Solid» com il titolo del libro. LaFaro fu portatore del concetto di «composizione simultanea», una tecnica che prevedeva una sorta di flusso improvvisativo continuo sia in fase di comping che al momento dell’assolo. Quel suo modo di suonare fu anche la metafora della sua fugace esistenza di giovane uomo ed artista: tanta espressività, un talento straripante ed un immensa voglia di vivere concentrata in un piccolo spazio, tanto da diventare uno dei bassisti jazz più influenti di tutti i tempi, nonostante l’esiguità delle sessioni a cui partecipò, meno di una ventina, e nessuna registrazione come band-leader.

C’è una rappresentazione della musica di LaFaro, riferita all’album «Sunday At The Village Vanguard» di Bill Evans, riportata nel libro di Staiano, che diventa alquanto suggestiva. Il riferimento è allo scrittore Ira Gitler, autore delle note di copertina, che a detta di Staiano sembra pervaso dall’atmosfera «zeniana» generata da «Jade Visions», il brano di Scott che chiude il disco: «Nell’ascoltare l’album sono così assorbito che la coscienza del mio corpo scompare e io divento come un orecchio più grande, dotato solo della mia psiche. Non sono consapevole dell’atto dell’ascolto».

Vincenzo Staiano dedica proprio l’ultima parte del libro al concetto di «flusso di coscienza» e non solo quella di Zeno, ma forse la coscienza del jazz nella sua complessità, che s’intreccia con l’amore da parte del giovane bassista con i libri, la letteratura e James Joyce. «Solid. Quel diavolo di Scott LaFaro» di Vincenzo Staiano è un documento unico nel suo genere, ogni piccolo dettaglio è come il tassello di un mosaico che ricostruisce attraverso tante istantanee la figura di uno dei jazzisti più innovativi e geniali di tutti i tempi, tristemente scomparso nel momento di sua massima eruzione creativa, senza aver avuto la possibilità di completare un ciclo evolutivo e raggiungere una maturità artistica. Ciononostante il fascino del personaggio è tale e tanto da rendere la lettura non solo utile e divulgativa, come si conviene ad un saggio, ma appassionante come la trama di un romanzo.

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