Il jazz è già di per sé una filosofia, una sorta di ragionamento sonoro che si srotola per analogie, similitudini, paradossi, iperboli; a volte si affida ai lumi della ragione. In verità il jazz è un misto di geometria euclidea («si può prolungare un segmento oltre i due punti indefinitamente», questa è l’improvvisazione) e di «pensiero debole» e relativismo, di suoni e sensazioni, che la filosofia può raccontare alla medesima stregua di un’analisi musicologica, dove le note e gli accordi analizzati sono rappresentate dalle parole dell’autore del libro o dai concetti espressi da eminenti studiosi e filosofi che con il jazz, per una sorta di inspiegabile mistero, trovano spesso forti analogie. La grandezza di molti filosofi e studiosi dell’animo e della mente umana è dovuta al fatto che le linee evolutive dei loro ragionamenti spesso somigliano ad una progressione di accordi musicali che si fondono in alchimia ritmico-armonica

«Temporale Jazz» di Marco Restucci è un libro che «suona», ma va letto ed interpretato, più che spiegato pedissequamente, altrimenti si rischia di fare come quel musicista che si rifugia nelle «frasi fatte». Partiamo da questa asserzione del libro, che potrebbe essere un buon attacco di quinta. Scrive Restucci: «Il jazz nel tempo si è fatto semplice per consentire ai musicisti di essere più profondi; se propone pagine lasciate quasi in bianco è per dare la possibilità a ognuno di scriverci sopra una storia, la propria storia. Ogni volta che un musicista si rifugia dietro frasi fatte, ripropone pagine già raccontate, da lui o da altri non ha importanza, non coglie il senso di questa musica, disattende un impegno implicitamente assunto e, in buona o in cattiva fede, si comporta come un falsario, commette un falso storico».

Il libro ha un sottotitolo, alquanto accattivante, «Estetica dell’improvvisazione», che in ambiti accademici potrebbe innescare dibattiti sine die, ma può realmente esistere l’estetica di un qualcosa che, in quanto improvvisato, è mutevole e cangiante? Come si possono tracciare i contorni ed i tratti psico-somatici di una progressione ritmico-melodico-armonica e portarli non solo sul piano della «visibilità», ma anche della percezione mentale, corporea ed extra-corporea? L’autore lo fa attraverso una sorta di sovrapposizione psico-filosofico-letteraria, incrociando i pensieri e le voci, ad esempio, di Aristotele, Kierkegaard, Kant, Freud, Adorno, Nietzsche, Leopardi, etc. Non è difficile riscontrare nelle parole dell’autore anche una specie rigore morale ed una riduzione all’essenziale della figura dell’artista: «L’avventura di un musicista è la musica non il successo. A decidere che strada percorrere, dove andare, quali rischi correre, deve essere lui, e il pubblico, se vuole, sale a bordo come un passeggero privilegiato, così quando poi dovesse aver voglia di scendere potrebbe farlo in qualunque momento e, nonostante ciò, l’avventura del musicista continuerebbe senza problemi, come sempre libera, leggera, autenticamente desiderante, imprevedibile, addirittura, se fosse possibile, una volta scesi i passeggeri, ancora più leggera, intima, estrema».

L’improvvisazione, in quanto tale, è un attimo fuggente, spesso non replicabile trascrivibile o circoscrivibile. Ecco dunque che l’autore elabora un piano ed una struttura, come farebbe un buon compositore con un arrangiamento, una vera partitura: INTRO, SOLO, Chorus 1 , Chorus 2, Chorus 3, CODA. A parte l’escamotage linguistico della ripartizione dei capitolo del libro, tutto serve a sostenere una serie di brillanti teorie filosofiche sul quella che è certamente la componente primaria e più attrattiva del jazz, che ne costituisce l’elemento di unicità, ossia l’improvvisazione. Nel jazz l’improvvisazione, a differenza di molti altri generi musicali, è regola e non eccezione.

Ragionando per paradossi, Restucci propone molti attacchi di settima, per esempio scrive: «Usare un modo di suonare in cui ci si riconosce, ricorrere a espressioni tipiche del proprio stile aiuta a dire meglio le cose, rende il discorso più fluido e, insieme, lo colora di tratti personali, gli imprime un’impronta. La stanca e noiosa ripetitività viene fuori dall’assenza di cose da dire, raramente dai segni di una spiccata personalità». Così il libro diventa anche una specie di manuale, soprattutto per aspiranti e provetti jazzisti.

Temporale come tempesta di suoni, o tutto ciò che attraversa il tempo al di là dello spazio fisico e mentale del musicista: è questa l’improvvisazione, la dilatazione del tempo non contenibile in una semplice idea, che vive dell’unicità del momento, ma soprattutto alimentata dal relativismo strutturale del jazz.

«Temporale Jazz / Estetica dell’improvvisazione» di Marco Restucci non è un libro di musica, ma è una guida ideale a cogliere l’essenza e le suggestione che la musica e nello specifico il jazz, che usando il suo linguaggio progressivo, si sviluppa come un flusso di pensieri e ragionamenti corali o singoli, dipanandosi attraverso chiamate e risposte, scambi, scambi e ricambi tra battere e levare, tempi e controtempi, alimentandosi di lampi di genio e folgori che esplodono in un temporale, un tempesta di idee che si placa nella quiete del ragionamento filosofico.

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