// di Stefano Giommini //

D. Francesco, ma il jazz è ancora vivo, o puzza solo un po’, parafrasando Frank Zappa, ma soprattutto chi rilascia il certificato di esistenza in vita del jazz?

R. Il jazz è una musica che ha cento anni di storia ed ha subito molte mutazioni genetiche. Spesso si discute di che cosa sia o non sia il jazz. Sembra che alcuni dotti, medici, ingegneri e sapienti si arroghino il diritto di sapere più di altri che cosa sia o sia diventato. In realtà del jazz è rimasta solo una specie di ossatura dove ognuno vi impianta ciò che vuole, spesso assai distante da quelli che sono gli elementi costitutivi della cultura afro-americana. Tutto ciò è destabilizzate, perché il jazz a differenza di altri generi più contemporanei non da punti di riferimento, oggi non ha aderenza con il tessuto sociale e l’universo giovanile come l’hip-hop o il rock delle etichette indie, cosiddette.

D. Secondo te, esiste un’attualità del jazz, intendo una valenza storica di questo genere nell’universo contemporaneo?

R. Ci vorrebbero più domande e più risposte, intanto dove si trova l’attualità del jazz, nel fatto che un certo numero di giovani lo ascoltino saltuariamente, ripescando i vecchi dischi del papà o del nonno o nell’attualità di una proposta coerente che non esiste? Qual è lo status reale del jazz in termini discografici e concertistici, almeno in Italia? Il jazz oggi annaspa in una palude di disperazione, nonostante il talento dei tanti musicisti attivi e l’impegno di piccole e volenterose etichette, nei confronti delle quali la casta dell’informazione è spesso indifferente: le copertine dei periodici di settore riguardano sempre “mitici” personaggi del passato, una sorta di captatio benevolentiae, che non favorisce l’apertura verso i giovani, ma è solo un ennesimo tributo al nostalgismo filo-abbonamenti; a tutto ciò si aggiungano un’insieme di situazioni sonore, spesso aberranti, che vengono indicate con il termine generico contemporary jazz.

D. Chi e che cosa tiene vivo l’interesse per il jazz?

R. Il nostalgismo degli “anziani” tiene vivo il fenomeno, ma poi si riduce ai soliti Coltrane, Mingus, Davis, Rollins, Evans, al massimo Jarrett e Corea. La vecchiaia e l’inadeguatezza del jazz non nascono solo dal dato anagrafico dei “divulgatori”, ma anche da una mentalità ristretta e angusta. Una delle frasi più diffuse è: per me Miles Davis finisce con “Kind Of Blue”. Tanti esperti di jazz parlano sempre fra di loro ed ogni tanto con Dio; molti di essi sono vecchi dentro: si esaltano al ricordo della gesta degli eroi del passato, rivivono con fervore i momenti della propria giovinezza ed i concerti cui hanno assistito; per contro denigrano personaggi come Kamasi Washngton, Christian Scott, Ambrose Akinmusire, solo per fare qualche esempio. Nel Complesso credo che il jazz sia una musica inadeguata al mercato dei giovani o all’universo giovanile. Ne parlavamo l’altro giorno in un negozio alla presentazione di un disco, dove erano presenti soprattutto venti/trentenni.

D. Non ti sembra che a volte ci sia un atteggiamento rigido e paternalistico da parte dei nostalgici e dei vecchi appassionati, specie nei confronti della Generation-X?

R. L’atteggiamento paternalistico di tanti “vecchi cultori” del jazz, talvolta anche spocchioso, non aiuta molto. I giovani si sentono distanti e non c’è un fattore d’identificazione “fisica”, ambientale, estetica e culturale, specie quando si sentono dire che non capiscono nulla, perché ascoltano hip-hop o delle forme di jazz legate all’hip-hop e al trip-hop. Molti di coloro che trattano di jazz, sono tutti ultrasessantenni e sanno poco nulla dei fenomeni recenti o, comunque, non appaiono interessati; tuttalpiù li hanno liquidati sommariamente senza una prova d’appello. Per intenderci, parlare di Tristano può essere uno stimolo per i giovani o tirar fuori dal sacello persino Bix Beiderbecke? Qualcuno dirà: ma bisogna conoscere la storia! Certo, l’interesse per la storia, il passato e l’approfondimento sono una fase successiva, ma prima deve scattare la scintilla, il meccanismo di proiezione che porta il fruitore potenziale ad interessarsi a quella specifica forma d’arte e di cultura.

D. Quindi tutto ciò finisce per determinare una sorta di gap, o almeno un difetto di ricezione da parte delle nuove generazioni.

R. Il cosiddetto “trasferimento della sensazione”, come si dice in pubblicità, spesso non avviene ed il coinvolgimento fisico-estetico è pressoché inesistente. Il jazz non possiede una forma espressiva calibrata per i nuovi strumenti del comunicare, soprattutto la maggior parte dei giovani non riescono a decifrarne il linguaggio non tanto strumentale, ma funzionale.

D. Allora è un continuo conflitto generazionale?

R. Dirò la cosa più banale: ogni musica è figlia del proprio tempo. Soprattutto la musica è sempre stata un susseguirsi di scontri generazionali, dove il nuovo divora automaticamente il vecchio. Aggiungo che quando si parla di musica, non si può buttare tutto nello stesso calderone. Il jazz in Italia, per esempio, vive da lungo tempo una situazione difficile, dico vive, ma sarebbe meglio sopravvive, anzi è in rianimazione. Al jazz mancano i punti di riferimento a monte, per esempio delle etichette discografiche con più budget a disposizione, inoltre il caos del mercato non consente loro di essere selettive ed intercettare il talento vero, al netto di qualche eccezione; poi a valle, come dicevo prima, il jazz è completamente escluso da ogni flusso comunicativo e mediatico, perché in questa società disgregata, liquida e frantumata, non rientra nell’intrattenimento da playlist radiofonica, ossia tre minuti di canzonetta, strofa, bridge e ritornello, o strofa, rap e ritornello; la stampa specializzata gioca un ruolo marginale e non è più grado di dare spazio e credibilità al jazz, perdendosi in mille rivoli. Molti linguaggi musicali, legati al rock ed al jazz, oggi, stentano ad emergere, soprattutto perché non hanno più aderenza con la realtà: terminata la stagione dell’antagonismo politico, taluni fenomeni hanno solo finito per diventare estetici e formali: io suono rock, tu suoni jazz, fu suoni blues, tu suoni prog, loro fanno trap, altri fanno rap. Per contro la Rete offre decine di piattaforme dove è possibile ascoltare musica di ogni tipo, in massima parte gratuitamente. Tutto ciò non è un bene. Quasi tutto viene surrogato, “playlistizzato” e banalizzato. Diceva mia nonna: l’abbondanza è come la carestia!

D. Forse ci sono ancora troppi generi musicali presunti che sono soltanto nominali, tanti distinguo e catalogazioni inutili?

R. Infatti, aggiungo che è pericolosissimo, nel 2022, parlare ancora di musica colta e musica corta, di musica sorda e musica dotta, musica popolare e musica elitaria. Soprattutto bisogna conoscere i fenomeni, la loro genesi e le connessioni ambientali, sociali, culturali. Già sessant’anni fa Umberto Eco aveva spiegato che non esiste musiKa con il K e musiCa con la C, soprattutto Kultura con il K. Esiste poi una situazione di tipo mediatico fondamentale: la rete ci ha messi tutti su un livello orizzontale, dove uno vale uno. La cultura verticale, troppo calata dall’alto, oggi, non è facilmente metabolizzabile ed accettabile; soprattutto la musica, il jazz nello specifico, quando diventa aulica, spocchiosa e pretenziosa, e soprattutto calata dall’alto, finisce per allontanare i giovani, che sono i principali consumatori di musica, voci attive nelle proiezioni di Marketing, etc. Se hai superato i sessant’anni, non esisti più (parlo anche di me, ne ho 62). Per cui noi ragazzi del ’68 e del ’77, abbiamo solo una precedenza: il vaccino anti-covid e quello anti-influenzale; parlare della musica che ascoltano i giovani o che ascoltano gli altri con disprezzo, non fa altro che aggravare il quadro clinico. Per parlare di jazz ai giovani bisogna giungere a più miti consigli.

Francesco Cataldo Verrina & Stefano Giommini

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