// di Francesco Cataldo Verrina //

A volte ci siamo domandati cosa leghi «Watermelon Man» a «Rock It», la risposta è stata semplice: la perenne voglia di cambiare di Herbie Hancock, il quale domenica 9 luglio sarà nuovamente all’Arena Santa Giuliana di Perugia. Herbie Hancock uno sciamano sempre pronto a sciorinare le sue pozioni, un vero mutante genetico del jazz che ha fatto parte di ogni movimento musicale significativo dagli anni ’60 in poi, a cominciare dall’epico quintetto di Miles Davis. Se il suo contributo fu determinante per l’ibridazione del bop con il jazz elettrico, il funk ed il rock, l’approccio creativo ha continuato travolgere ogni certezza acquista dai suoi predecessori, infrangere le regole e stravolgere le distinzioni di genere, alterando e contaminando l’ortodossia del jazz, ma soprattutto divenendo negli anni un punto di riferimento per tanti esploratori del suono: dal jazz sperimentale alla tecno-dance, dal funk elettronico all’hip-hop. Miles Davis scrisse nella sua autobiografia: «Herbie è stato il passo successivo a Bud Powell e Thelonious Monk; nessun altro, dopo». Herbie Hancock, ringraziò col solito piglio umile e scherzoso sottolineando che: «È il jazz, non è che io sia una star del cinema di Hollywood». Ha vinto un Oscar per la colonna sonora di «Round Midnight», il miglior film mai realizzato sul jazz e 14 Grammy Award, tra cui quello alla carriera; ha composto la colonna sonora del capolavoro di Michelangelo Antonioni «Blow Up», realizzato incursioni nella musica elettronica e, successivamente, anche nell’easy-pop d’alta classifica. Queste furono le sue parole: «Mi piace scoprire nuove regole in modo da poterle infrangere. Se mi guardo intorno non posso non vedere cosa sta diventando convenzionale, musicalmente parlando. Ho capito come potrei rompere lo schema, da qui l’innovazione, ciò che mi fa suonare e andare avanti».

Intanto riviviamo insieme l’atmosfera del concerto che Herbie Hancock tenne sempre all’Arena Santa Giuliana di Perugia, giovedì 14 luglio 2022:

Herbie Hancock alza un muro tra lui ed il resto di Umbria Jazz. Nonostante l’alto tasso qualitativo degli artisti presenti alla manifestazione, Hancock è di un’altra galassia, un punto di riferimento per chiunque ami il jazz moderno. Il pianista ha «banchettato» con gli Dei, rappresenta una parte cospicua del catalogo Blue Note, è stato decisivo al fianco di Miles Davis, ha visto e sentito cose che noi comuni mortali possiamo solo immaginare. Herbie è sorpreso da tanta folla che lo acclama, e sembra sincero quando dice: «Grazie Perugia, Umbria Jazz, ma tutta questa gente è davvero qui per me, non è che avete sbagliato serata? Io sono solo Herbie Hancock». Ironia della sorte, le sue parole, mentre introduce i collaboratori descrivendone i pregi, diventano magnetiche: è un pezzo di storia che parla e racconta, potrebbe anche non suonare. Herbie scherza, gioca, libera qualche battuta, non sembra volersi prendere sul serio. Il primo momento da appuntare nella mente ad imperitura memoria è l’omaggio al suo fraterno amico Wayne Shorter con una dilatata versione di «Footprints» contenuta «Adam’s Apple» del 1966 e che il sassofonista aveva composto quando aveva solo 18 anni. Hancock e compagni stendono la tela a dismisura frugando negli impervi territori del modale spinto: gli assoli sono dilatati, l’ospite d’onore, Terence Blanchard, chiude bene gli spazi e spesso fa da collante in molti interplay. Il trombettista ha sempre confessato il suo amore per Clifford Brown, ma il modo di suonare è piuttosto hubbardiano, tant’è che se la cava egregiamente quando Hancock sposta il convoglio su un terreno decisamente più funkified.

La vera sorpresa del set, un autentico valore aggiunto, è il chitarrista Lionel Loueke, capace di coniugare un tocco ed un fraseggio ricco di spunti melodici ad un ottimo scat. Hancock lo guarda ammirato (è una sua scoperta) e lo asseconda con un comping da accademia del jazz, alternandosi tra pianoforte acustico e varie tastiere, una delle quali impostata come un organo che aggiunge un perfetto PH acido alle performance funk-fusion che, ad un certo punto, iniziano a prendere il sopravvento. Dal canto loro, il contrabbassista James Genused ed il batterista Justin Tyson sembrano a loro agio in questa mutevole giungla di sonorità, vocoder e groove sincopati. Il repertorio non risulta facile ed immediato, specie per i tradizionalisti che si sarebbero aspettati i classici della Blue Note. Il pianista decide di camminare ai margini della sua discografia, spesso sul ciglio del burrone, tentando di unire gli estremi, soprattutto il basso elettrico e tutta la strumentazione elettronica creano un’ambientazione che guarda più al futuro che non al passato, specie quando il Nostro imbraccia la keytar, ossia la tastiera a tracolla. Hancock, per carattere, non si è mai guardato indietro e poi nel jazz non conta ciò che suoni, ma come lo suoni. Ad onor del vero, questo line-up non perde un colpo, a prescindere dalla scelta dei brani, che forse avrebbe potuto essere più «ruffiana», in virtù di un’audience assai differenziata. L’estate impazza e c’è spazio anche per una fresca fetta di melone. «Watermelon Man» che, dilatata all’inverosimile offre al gruppo la possibilità di innestare in quell’humus di tutto e di più, lunghi assoli ed ottimi scambi a rotazione. L’entusiasmo cresce ed il «cocomeraio» diventa il preludio al grande bis finale: una bordata di elettro-funk che scuote l’Arena Santa Giuliana la quale concede una meritata standing ovation. Il trasferimento della sensazione è perfettamente riuscito.

Herbie Hancock, ossia Herbert Jeffrey Hancock, nasce il 12 aprile 1940 a Chicago. All’età di 11 anni suona il primo movimento di un concerto di Mozart con la Chicago Symphony Orchestra ed è subito un successo: in lui sono già presenti in nuce tutti i talenti del genio che verrà. Non tarderà neppure a formare la sua prima band ed a prendere dimestichezza con il pubblico, abbozzando anche qualche rudimentale composizione. Dopo essersi laureato al Grinnell College in Iowa nel 1960, si unisce al gruppo di Donald Byrd, trasferendosi a New York nel 1961. La sua abilità non comune nel comping e gli inusuali assoli in vari gruppi bebop gli aprirono la strada verso una carriera fulminante, che iniziò a decollare dopo l’approdo nel gruppo di Miles Davis, con cui collaborerà dal 1963 al 1968. A metà degli anni ’60, le continue esplorazioni del quintetto di Davis sulla libertà ritmica e armonica stimolarono la creatività del pianista e la sua predisposizione a sperimentare concetti più audaci rispetto alla media del periodo: soluzioni aritmiche e armonicamente variegate, che getteranno le fondamenta per un suono rivoluzionario nell’ambito del post-bop. La sua formula magica, da sciamano in continua trance creativa, intrisa di funk, elettronica e rock, sortirà uno stile che influenzerà generazioni di provetti musicisti votati all’alchimia sonora.

Negli anni ’70, dopo i primi esperimenti con Miles Davis, Hancock iniziò a dirigere gruppi dediti ad una fusion sperimentale ed aperta a mille soluzioni, cimentandosi con disinvoltura alle tastiere elettroniche, al pianoforte elettrico ed ai sintetizzatori, sviluppando una ragnatela di ritmi ed un arazzo di colorate ed avviluppanti sonorità, giocate su linee futuristiche e traiettorie stratificate, che caratterizzeranno alcuni dei maggiori successi jazz-funk come «Chameleon», incluso suo album più venduto, «Head Hunters» del 1973 , fino ad approdare al più redditizio universo della dance-music con «You Bet Your Love» del 1979 e «Rockit» 1983. Se la condivisione, l’improvvisazione e la sperimentazione sono insite nel DNA del jazz, per Herbie Hancock il palco divenne presto la dimensione ideale, per lunghi anni è stato una ribalta su cui inscenare la rappresentazione vivente della sua musica, il luogo ideale da cui testimoniare il passato ed anticipare il futuro. In un’intervista al Guardian disse: «È così che ho imparato, da quelli più vecchi di me. Sono salito sulle spalle dei giganti, e ora è il mio turno». Sin dagli anni Sessanta, con l’evolversi e l’espansione del jazz, le priorità erano cambiate, così come i ruoli dei musicisti, titolari di progetti, nonché dei semplici esecutori, gregari e comprimari. Non sempre c’era bisogno di «attori» così appariscenti sulla scena. Si consolida l’idea della collaborazione inter pares: il perseguimento e l’ottenimento collettivo di un particolare suono divenne importante quanto il virtuosismo individuale, e ciò creò notevoli opportunità per «giocatori di squadra» molto dotati; musicisti che cercarono di rielaborare e migliorare il vissuto artistico precedente del jazz: Hancock seppe tesaurizzare e rielaborare in breve tempo la sua esperienza di gregario di lusso. Oggi, all’età di 83 anni, Herbie Hancock, leggenda vivente e divinità olimpica del jazz, scenderà ancora una volta sulla terra a miracolo mostrare, planando sul main stage dell’Arena Santa Giuliana di Perugia, domenica 9 luglio 2023.

Herbie Hancock – Umbria Jazz 2022

www.doppiojazz.it

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