// di Francesco Cataldo Verrina //

C’è un libro su Lou Reed con un titolo molto suggestivo «My Week Beats Your Year», che letteralmente significa «la mia settimana batte il tuo anno», dunque parafrasando l’universo loureediano, si potrebbe dire che una settimana della vita di Miles Davis, valga più di un anno di qualunque altro jazzista o sedicente tale. Non passa stagione che Miles non torni a far parlare di sé. Si potrebbe immaginare che, anche dagli inferi, il Black Magus continui a fare i suoi incantesimi. In realtà, sono solo manovre commerciali d’assestamento operate dalle case discografiche per monetizzare qualsiasi improbabile lascito del trombettista.

Una dato di fatto è certo, non si può dire che Davis non faccia parlare di sé, nel bene e nel male, e che il suo essere attuale sia a dir poco sorprendente. «Merci Miles! Live At Vienne» contiene una performance catturata ad un festival nel Sud della Francia a meno di tre mesi della sua morte. Non era un Miles al meglio della condizione, ma spiritualmente appariva ancora in linea con la strada musicale imboccata in quel periodo: R&B in stile anni ’80 e cover di successi pop-rock caratterizzati da uno schiaffeggiante basso slap-plonky ed un pesante synth dalla lucentezza metallica. Miles Davis è stato forse il più «grande figlio di puttana» della storia della musica contemporanea, e non ci sono James Brown, Prince, Sly Stone, Marvin Gaye o George Clinton che tengano, ma neppure, Mick Jagger, Lou Reed, Jimi Hendrix o Jim Morrison. Ritornando all’assioma di Lou Reed, una settimana di Miles batte un anno di ciascuno dei succitati. Storicamente, in quanto a «bastardaggine», l’unico che avrebbe potuto tenergli testa sulla carta, era Charles Mingus, ma rispetto a Miles Davis fu meno scaltro e furbo, almeno dal punto di vista economico: c’ha pensato poi la vedova del contrabbassista a rifarsi e pareggiare i conti con tutti quelli che si erano approfittati del marito, specie i discografici.

Attenzione a non essere troppo precipitosi nei giudizi: di Miles Davis circolano centinaia di leggende metropolitane, fake news e su di lui i giudizi approssimativi, per sentito dire, e pieni di luoghi comuni, si sprecano. Su queste uscite postume, come era accaduto per il precedente «Rubberband» ci lucrano in special modo i cosiddetti profanatori di tombe e gli imbalsamatori di cadaveri, ossia i discografici e i produttori. Sparare a zero sul trombettista dell’Illinois da tempo è diventato per uno sport (qualcuno ha chiesto di ammetterlo alle olimpiadi nella categoria tiro a segno), ma in fondo Miles Davis, che dio l’abbia in gloria, come si sancisce nel film-biografia rimane «l’eterno imperatore del cool e tutti lo sanno», anche se nell’arco della carriera ha fatto molto di più.

Miles Davis

Il disco-concerto parte con una fluida interpretazione di «Human Nature» di Michael Jackson srotolata per oltre 18 minuti, segnata da un interludio nebbioso nel mezzo e da un finale al fulmicotone. Niente «feticci» del passato bop, cool o modale, ma la band viene trascinata sull’espansivo (sentimentalmente) territorio di «Time After Time» che accentua il feeling perverso del trombettista con l’attualità musicale di quel momento. Davis conduce un’esplorazione sonora che va del funk-post-fusion all’hip-hop, ma è più sfumato rispetto alle iterazioni prodotte nei suoi dischi da studio. Miles è accompagnato dal giovane pianista-organista Deron Johnson, dotato di un caratteristico tocco ed un senso del ritmo assai pronunciato. Il sax di Kenny Garrett quale garanzia di stabilità, così come il basso elettrico di Richard Patterson e Ricky Wellman alla batteria. La compagine si completa con l’estroso Foley, alle prese con una singolare chitarra a quattro corde, più simile ad uno strambo basso elettrico, ma suonato in pratica come una chitarra.

Il line-up, sembra raccolto intorno al lead bassist, il quale crea un groove incrollabile e profondo, ma al contempo flessibile ed adattabile alle progressioni della tromba. Il band-leader spazia a lungo, ma condivide con i sodali le sue micro e macro aree d’interesse sonoro. Eccellente la forbita melodia di «Wrinkle», consegnata all’unisono insieme al sassofonista Kenny Garrett. «Wrinkle» si sostanzia come il pezzo forte del set, passando bruscamente da un frenetico impulso up-tempo grassoccio, quasi EDM, ad un groove mid-range temperato e minimale. In alcune performance Davis tende a vagare; per contro il compatto l’assolo di Garrett su «Penetration», è da manualistica per apprendisti stregoni del sax. «Penetration» e «Jailbait», sono due semi-composizioni di Prince, che il trombettista esegue con estremo rispetto nei confronti dell’amico, senza tentare un superamento o uno snaturamento delle strutture melodico-armoniche. La conclusiva «Finale» venne eseguita dalla band senza il Boss, il quale aveva salutato il pubblico già alla fine del brano precedente. In realtà è una sorta di esercizio a base di drum’n’bass che mette in mostra soprattutto la muscolatura creativa del batterista.

Miles Davis smuoveva sempre il terreno circostante per giungere ad un obiettivo prefissato, ma era così abile da non fare inciampare i suoi ascoltatori. Nell’album in oggetto, ogni transizione sorprende il trombettista e la sua crew intenti a coalizzarsi intorno al ritmo per poi sfrecciare via alla ricerca di altre vie da battere. Tutto ciò è sempre stato insito nella natura creativa di Davis, ossia inseguire qualcosa di nuovo, facendo qualcos’altro che mentre si sviluppava, sembrava invecchiargli tra le mani e sotto gli occhi. Forse più di trent’anni hanno depositato un certa quantità di polvere su questa esibizione, ma per i sostenitori di sempre ed i fan dell’ultimo periodo appare come una manna dal cielo.

L’ambientazione non potrebbe essere più grandiosa. Il set si svolge in un antico anfiteatro romano, gremito in ogni ordine di posti, dove il pubblico sembrava formare un ventaglio perfetto intorno allo stage. Durante le sere d’estate nel Sud-Est della Francia il caldo e la pietra delle gradinate non rendevano troppo confortevoli le sedute, ma con Miles il comfort fu irrilevante. Quella gente ebbe la fortuna di vivere ottanta minuti di musica che rimarranno per sempre nella storia di quei luoghi. La serata di apertura del Festival Jazz à Vienne era sempre un grosso affare, soprattutto quella sera in cui l’headliner sarebbe stato colui che, per molti Francesi, incarnava le Roi de Jazz: Miles Davis. Era il 1° luglio 1991 e, sebbene molti di essi non se ne rendessero conto, quegli spettatori stavano assistendo ad uno degli ultimi concerti di una vera leggende del jazz, nonché di una delle più importanti figure della musica del ‘900. Solo novanta giorni dopo, Miles avrebbe lasciato questa valle di lacrime per sempre.

A noi oggi resta un disco-documento, disponibile su doppio CD o doppio vinile, che, musicalmente non aggiunge o toglie nulla al range creativo del trombettista, ma che funge da promemoria sull’importanza di un’epoca irripetibile, nonostante le complicazioni e le fughe sonore del jazz verso altre direzioni. Miles suona in maniera precisa e spaziata, lenta e sublime, veloce e compatta, lasciando trapassare ogni nota con assoluta chiarezza, attraverso una sfavillante tromba scarlatta. Il lungo applauso, che risuona intorno all’antico anfiteatro a fine spettacolo, dice tutto. Oggi nella leggerezza dell’estasi internettiana tutti diventano una «leggenda», il termine è diventato usa e getta, nonché inflattivo e svalutato. Nella vecchia valuta, all’epoca di queste performance, Miles Davis era una leggenda vivente in carne ed ossa; era un’icona, uno dei pochi eletti destinati al Pantheon della musica afro-americana. Alcuni giorni dopo il concerto, il trombettista venne insignito della più alta onorificenza francese, la Légion d’Honneur. Mentre lo premiava, l’allora ministro della Cultura francese, Jack Lang, lo descrisse come il «Picasso del Jazz».

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