// di Francesco Cataldo Verrina //

Ricordo di un’estate senza jazz

Per descrivere e raccontare la serata del 18 luglio 2019 all’Arena Santa Giuliana devo sfoderare la mia natura bifronte, parcheggiando per un attimo, in angolo della mente, l’atteggiamento di cultore e studioso del jazz e ricordami di essere stato per lungo tempo uno “scrivente” ed un narratore radiofonico di storie rock.

E non è facile raccontare di una band già consegnata agli annali della storia della musica e che sfugge alla contemporaneità fatta di segnali esteriori, di click fotografici e selfies a raffica, mostrandosi sul palco come una cartolina d’altri tempi; decidendo soprattutto di non farsi fotografare, anzi imponendo al pubblico e agli addetti ai lavori di non fare foto e riprese di alcun tipo. Tutto appare cosi distaccato ed lontano nel tempo, dal main stage è stato tolto perfino il logo di Umbria Jazz.

Parlando di rock e di prog è impossibile non tenere in considerazione gruppi come i King Crimson, punti di riferimento e maestri per molte generazioni di musicisti venuti dopo; il particolare il culto del “Re Cremisi” e la sua venerazione da parte dei fans è un rituale che si ripete, passando di generazione in generazione. Nella notte di lunedì 18 luglio all’Arena Santa Giuliana, dopo un timido accenno di pioggia che sembrava rovinare la festa, si è celebrata una messa solenne a favore di una musica senza tempo, officiata dal demiurgo della band, il geniale Robert Fripp, vero cardine della band, collante e custode del progetto per mezzo secolo; personaggio timido e silenzioso, il quale appare perfino stupito dal caloroso consenso del pubblico e dalle ripetute standing ovation. Dopo essersi seduto dietro il suo macchinario ed armamentario sonoro, non si è più alzato per due ore e mezzo.

Una serata da ricordare per gli organizzatori di Umbria Jazz, soprattutto se parliamo di numeri; finora la più affollata della manifestazione. Fripp & Soci, dal canto loro, sono troppo bravi, troppo perfetti, distanti, algidi, neppure una parola, tutto sotto controllo, senza sudore, senza calore, soprattutto senza blues. Macchine da guerra quasi programmate con calcolo alfa-numerico, che dispensano, come un juke-box, ballate barocche per vecchi nostalgici della grande epopea rock e riff-raff aggiornati da incursioni ritmiche per giovani adepti alla setta dei collezionisti di dischi e cimeli prog.

Lo spettacolo inizia con pressanti e rutilanti tambureggiamenti. Tre batterie, avete capito bene, tre batterie dispiegate in prima linea sullo stage come una contraerea decisa a proteggere ed agevolare il volo pindarico e sonoro dei musicisti retrostanti, disposti su un piano rialzato. Questo line-up della band prevede ben tre batteristi davanti agli altri strumentisti, il contrario quanto accade in tutte le altre band. E’ il primo segnale distintivo, ma non l’unico, dei (nuovi) King Crimson. Lo storico batterista Pat Mastellotto è affiancato da Gavin Harrison e Jeremy Stacey. “Hell Hounds of Krim” da la stura la prima parte del concerto, sotto decisi e precisi colpi di rullanti, piatti e grancassa con cui i tre batteristi che danno l’illusione di voler innescare una specie di improvvisata competizione, ma è tutto calcolato e metronomico, non esiste possibilità per un margine di errore, l’impostazione sonora della band non lo prevede e Fripp, genio della perfezione, non lo gradirebbe. La furia percussiva si placa nelle spire dell’epica “Picture of a City”, contenuta secondo album della band, “In the Wake of Poseido” del 1970.

Le sonorità sono pulite, e tracciate su carta millimetrata, nonostante la complessità delle strutture armoniche. Tra divagazioni oniriche e atmosfere soffuse e dilatate, la band snocciola le perle di una fiorente discografia; molti pezzi sono stati stravolti rispetto agli originali per creare l’effetto improvvisazione, che comunque è solo virtuale. Alcuni dei loro brani più celebri, soprattutto cantati, vengono sistematicamente alternati a pezzi più rari e strumentali, si passa da “Epitaph “, con il suo andamento quasi sotterraneo a pezzi più energici ed intriganti come “ Cat Food” e “ Islands”.

Sette musicisti sul palco producono una propulsione sonora non comune; molti strumenti danno una ricchezza di temi e variazioni armoniche. C’è anche una piccola suggestione per gli amanti di jazz grazie all’approccio musicale del polistrumentista Mel Collins, protagonista soprattutto con sassofono e fiati. Il marchingegno nella sua totalità è ben lubrificato; tutto scorre tra riff, fraseggi, virtuosismi e incursioni ritmiche; altre canzoni, che la platea del Santa Giuliana sembra gradire molto, vengono eseguite: “Suitable Ground for Blues”, “Frame by Frame” e Level Five; quindi, come annunciato in apertura dallo speaker ufficiale, un break di circa 15 minuti tra la prima e la seconda parte.

Il sipario si riapre sul concerto attraverso le note di “The ConstruKction of Light”, che intercetta subito i gusti del pubblico, il quale ripaga con una forte ovazione. A raffica arrivano i capisaldi della loro discografia, i successi del passato. Dopo “Cirkus” è la volta del capolavoro che, nel 1969, garantì al gruppo di Fripp un passaporto per la storia. Da “In the Court of the Crimson King” vengono eseguite “Moonchild”e la title track, che infiammano di nuovo gli animi del pubblico pagante. In conclusione “Indiscipline” e “Starless”. Non manca il canonico bis, così scontato che non c’è neppure la pantomima dell’uscita e del rientro in scena. Come automi programmati, i sette anziani guerrieri del prog prendono di nuovo posizione e suggellano la loro serata autocelebrativa, per i 50 anni della band, con “21st Century Schizoid Man”.

Di certo, i King Crimson sono dei mostri di bravura, ma ho avuto la sensazione di assistere ad una performance fine a sé stessa, molto autoreferenziale. Scrivo non da fan e, per giunta, da vecchio critico musicale rock pentito. Per me è stato come ascoltare un nastro ripulito e rieditato. I musicisti avrebbero potuto non essere sul palco, troppo distanti, eccessivamente concentrati a sentirsi divinità, a perpetuare il loro culto e non sbagliare nulla: nessun cedimento emotivo. Freddezza, timidezza, riservatezza, calcolo matematico o impostazione e postura studiata a tavolino? Comunque, una distanza siderale dal mondo dei comuni mortali, anche se tutto ciò non intacca l’eccellente qualità della loro musica. Va bene essere divi, ma divini è un’altra cosa. Non ho visto nessuno di essi camminare sull’acqua.

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