// di Francesco Cataldo Verrina //

Sono nato nel maggio del 1960, il jazz aveva già detto e fatto alcune delle cose più importanti della sua storia. Non solo sono nato in ritardo sull’asse degli avvenimenti, ma il jazz, diciamo quello vero, ho iniziato ad apprezzarlo tardi, quasi intorno ai trent’anni e siamo già vicini al 1990, quando il jazz navigava già in pessime acque. Al jazz sono arrivato per vie traverse, intanto attraverso l’innato interesse che ho sempre avuto per la musica afro-americana, che ad un certo punto cominciò ad essere motivo di studio universitario, grazie al terzo esame di Antropologia Culturale che prevedeva l’indicazione da parte dello studente di un argomento da finalizzare ad un’ipotetica e futura tesi di laurea. La mia scelta ricadde sullo studio della cultura afro-americana e le sue connessioni con la musica, la politica e l’emancipazione dei neri. Un amore mai sopito. In quel periodo, con i pochi soldi che avevo a disposizione compravo ogni disco, purché sulla copertina ci fosse un artista o un gruppo di colore, il volto di un musicista, di un cantante nero o di una corpulenta soul-singer. In quegli anni a parte la disco-funk, di vecchio soul e di bop usciva poco, per molti il jazz, sin dagli anni settanta era diventato sinonimo di fusion, e ne ero convinto anch’io. In questo calderone c’erano anche tantissimi artisti che suonavano free-jazz, afro-funk, jazz-rock, afro-jazz, jazz-funk, smooth-jazz, quindi cominciai ad accumulare decine di album di questi generi limitrofi, ma non proprio ortodossi alla grammatica ed al vernacolo tradizionale del jazz mainstream.

Dal 1977 avevo iniziato a lavorare nelle radio private e questo mi aveva avvantaggiato molto, avendo la possibilità di ascoltare dischi di vario genere e di avere anche tanto materiale a disposizione da poter registrare senza alcun limite. Tutto ciò teneva a bada anche il mia spinta compulsiva all’acquisto dei dischi e la frustrazione, spesso, di non poterli comprare tutti. Nel 1984 «fare radio» divenne ufficialmente il mio lavoro. Ciò mi consentiva di vivere abbastanza bene per i parametri dell’epoca, ossia mangiare, vestirmi, pagare un affitto, bollette, avere un auto, divertirmi, etc., quindi soldi per i dischi ne rimanevano sempre pochi. Si dice che l’attesa faccia accrescere il desiderio.

Intanto a metà degli anni ’80, lavorando in una radio, m’imbatto per la prima volta in uno strano oggetto, il Compact Disc, il sedicente CD, l’avvenimento non solo non mi entusiasmò, ma ci rimasi pure male. Trovavo quell’oggetto volgare ed insulso, piccolo e brutto. A parte qualche fruscio in meno, rispetto al vinile aveva un suono piatto e schiacciato, nulla di trascendentale come qualcuno aveva preannunciato. «Questo è il futuro!», disse il proprietario della radio, dopo aver tirato fuori da uno scatolone due sfavillanti lettori CD della Revox dal costo esorbitante, «è comodo, è più pratico, non accumula polvere e prende meno spazio», aggiunse sempre il piccolo tycoon di provincia, tronfio e gongolante di gioia per il suo acquisto. Non dissi una parola, guardando con tristezza i due vecchi giradischi da broadcasting sistemati al lato della consolle. Tornato a casa, la notte non riuscii a prendere sonno. Pensavo: ma come, proprio adesso che le cose cominciano a girare bene, ho molti più soldi, posso comprare i dischi che voglio, dovrei, magari barattare i miei bellissimi album con quelle orribili scatolette di plastica con i titoli illeggibili. Dicevo a me stesso: preferisco di gran lunga le cassette con quel nastro che ogni tanto si spezza o si arrotola, almeno hanno una parvenza umana. E poi chi se ne importa della polvere! Io l’ho sempre adorata, insieme al fruscio, le puntine che saltano, il rumore di fondo. Perfino la polvere, quella notte insonne, mi sembrava un dono del signore.

La delusione più cocente arrivò qualche anno dopo. Era il 1988, mi trovavo alla RCA di Roma, in quel periodo legata dalla BMG. Quando i promoter, anziché consegnarmi il solito pacchetto con le novità in vinile per la radio, mi diedero un mucchietto di obbrobriosi CD, domandai: «E il vinile, ho visto che nello stabilimento ancora stampano?» Mi rispose, qualcuno sotto voce: «Si, ma dalla Germania ci sono arrivati ordini tassativi, usare vinile scadente e sottile, in maniera da mettere in risalto la superiorità del CD ed indirizzare il mercato verso il nuovo supporto!» Fu come una coltellata a freddo. Intanto eravamo arrivati nei pressi dello stabilimento e le presse continuavano a stampare vinile. Lo avrebbero fatto ancora fino al 1993. Quel giorno, un tecnico, originario delle mie parti, addetto alle macchine, ci portò in un magazzino retrostante, dicendo a me ed al mio collega: «Volete il vinile, portate la macchina qui e caricate tutto quello che vi piace. Tanto, questo andrà al macero». In un paio d’ore facemmo una selezione in mezzo a quelle pile di doppioni, tirando fuori circa 300 album a testa. Fu una specie di risarcimento morale per brutte notizie ricevute. Vi garantisco che, in quel periodo, approfittammo molto del fatto che tutte le case discografiche fossero assai prodighe nel regalare i resi del vinile destinati al macero, al di là delle copie destinate alle radio. Ho anche tanti album con l’orribile scritta, «campione gratuito non destinato alla vendita». Intanto le mie condizioni economiche e lavorative miglioravano di giorno in giorno, dunque la mia frenesia per l’acquisto del vinile procedeva di pari passo e senza sosta, tanto che dopo il fatidico 1993, quando le majors sospesero la produzione, cominciò a raggiungere dei livelli parossistici: mercatini, fiere, acquisti da privati.

Ovviamente, si facevano affari d’oro, erano tutti attratti da quel brutto anatroccolo del CD, salvo poi scoprire che era molto sensibile alla polvere e che bastava un granello per farlo saltare o farlo inceppare. Ricordo un’accesa riunione in radio, alla fine degli anni ’90, in cui volevano sbarazzarsi dell’archivio in vinile. Ebbi una specie di moto di rabbia e di sussulto premonitore, un vaticinio. Mi alzai urlando: «Non capite niente, fra un decina d’anni il vinile ritornerà e dovrete buttare via quegli orribili CD, che intanto cominceranno a saltare, più di quanto non facciano normalmente, o essere illeggibili!» Dopo più di vent’anni una persona mi ha chiamato per ringraziarmi: «Grazie c’avevi visto giusto quel giorno, ho conservato il vinile, anzi sono tornato a comprarlo e la cosa mi fa sentire giovane!» Oggi il CD è quasi morto e la liquida ha preso il sopravvento, ma il vecchio microsolco ha riconquistato una posizione importante sul mercato, sia pure di nicchia, ma di tutto rispetto. E se l’acquisto dei vinile fosse davvero, per quelli nati nel 1960 o giù di lì come me, una specie di elisir di lunga vita o una sorta di rivincita? Oggi posso farlo e ne compro quanti ne voglio. Una cosa è certa io ne ho comprati e continuo a comprarne tanti, ma un dubbio a volte mi assale: cui prodest, se poi ti accorgi che alcuni non li hai neppure ascoltati o al massimo li hai messi una sola volta sul giradischi, quel giorno che li hai portati a casa?

Mia nonna diceva: «L’abbondanza è come la carestia!», nel senso che se hai tante cose, ma non sai cosa scegliere o dimentichi di averle, è come se tu non ce li avessi. Giorni addietro, mettendo a posto l’archivio, mi sono saltati fuori una trentina di vinili che non ricordavo neppure di possedere. Fortunatamente, negli ultimi due anni, proprio mentre molti hanno subito un ritorno di fiamma, io ho cominciato a disintossicarmi dall’acquisto compulsivo causato dal virus della vinilite acuta. I miei acquisti sono consapevoli e ponderati, soprattutto non cedo alle intemperie ed ai capricci del mercato. Non sono mai stato un collezionista di edizioni speciali e particolari, inediti et similia, ma solo un accumulatore seriale, con un atteggiamento non dissimile a colui che teme lo scoppio di un guerra o l’arrivo imminente di una carestia e fa scorta di provviste, accatastando spesso parecchie derrate inutili.

Per contro, sono un vero cultore del vinile: tutti i momenti di relax della mia vita intima e privata sono caratterizzati dall’ascolto di musica, dove l’unico intermediario è sempre e solo un giradischi. In casa mia ci sono quattro impianti con differenti caratteristiche sonore. Anche questo è feticismo. Il vinile ha un marcato potere seduttivo e, nei giovani, evocativo di periodi che non hanno mai vissuto. Nei soggetti più maturi fa vibrare le corde del nostalgismo. Attenzione, però, a non cadere nelle sue spire, produce forte dipendenza al pari di una sostanza psicotropa, di cui non è facile liberarsi. Soprattutto non credete mai a coloro che vi dicono che il vinile si senta meglio del CD o viceversa. Sono questioni di lana caprina: il fascino è nell’oggetto in sé, che produce quasi una mutazione dell’ascolto in una trasfigurazione erotico-sensoriale, alimentata dal possesso e dalla tangibilità del supporto stesso. Parabola significa!

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