// di Francesco Cataldo Verrina //

L’organo nel jazz è uno strumento alquanto divisivo: odio o amore! Eppure questo ingombrante apparato sonoro ebbe nella storia un ruolo importante: servì inizialmente ad avvicinare al jazz «la classe operaia», quelle masse di colore che cercavano nella musica anche un elemento di evasione, di divertimento e di ballabilità. L’organo è uno strumento dominante, capace di annullare tutti gli altri, non a caso alcune delle migliori combinazioni nacquero dal semplice sodalizio con una chitarra ed una batteria. L’organo riusciva a compensare perfino la mancanza dei fiati, ma l’innesto di un sassofono nel classico trio organo, chitarra e batteria, ha prodotto alcuni capolavori. Il risultato finale di tale combine strumentale era un prodotto «commerciale», facile e fruibile, a cui venne dato il nome di soul-jazz; a volte in maniera quasi dispregiativa veniva indicato come «boogaloo», eppure l’organo nel jazz vanta un nomenclatura di nomi eccellenti, quasi tutti uomini. Le donne sono rare, in particolare emerge la figura di Rhoda Scott, figlia di un ministro di culto itinerante, quindi cresciuta nei luoghi e negli ambienti più congeniali all’impiego dell’organo.

Durante l’accompagnamento dei Vangeli e dei Negro Spirituals, la giovane Rhoda rivelò presto il suo innato talento musicale. Inizialmente autodidatta, l’organista frequentò il Westminster Choir College di Princeton nel New Jersey, mentre nel 1967 ottenne il Master of Music alla Manhattan School of Music di New York; nello stesso anno, per un breve periodo, si trasferì in Francia (che diventerà la sua patria di adozione), per studiare contrappunto, armonia e composizione presso il Conservatorio Americano delle Belle Arti di Fontainebleau. Al ritorno in USA, la Scott ebbe la fortuna d’imbattersi i Count Basie che la ingaggiò per il suo locale di Harlem. Fu proprio nel club di Basie che l’organista venne casualmente ascoltata dal discografico Eddie Barclay, il quale si trovava a New York con l’amico Raoul Saint-Yves, proprio a caccia di talenti.

Colpiti dallo stile originale e dal forte impatto comunicativo della ragazza, i due impresari la invitano ad andare a Parigi per una serie di sconcerti. Così, nel luglio del 1968, Rhoda Scott firma un contratto con il direttore del rinomato jazz club Le Bilboquet, Raoul Saint-Yves, che in seguito diventerà suo marito. L’anno successivo l’etichetta Barclay pubblica il suo primo album francese, dove Rhoda con il solo accompagnamento della batteria di Daniel Humair, interpreta standard jazz, temi da «West Side Story» ed una sua composizione, «Take A Ladder» che darà il titolo al disco. Il successo di pubblico e di critica sembra immediato e l’idillio, soprattutto con gli appassionati di jazz in Francia non si è mai sopito. Rhoda Scott, oggi ultraottantenne, è ancora in attività e coinvolta in svariati progetti.

Durante gli anni della sua affermazione a livello continentale, Rhoda padroneggiava perfettamente l’organo Hammond, il famoso B-3, collegato a tre altoparlanti Leslie, esibendosi generalmente con il solo supporto di un batterista e suonando le linee di basso sulla pedaliera dell’organo, soprattutto si toglieva immancabilmente le scarpe, il che le valse il soprannome di «The Barefoot Lady» (la signora a piedi nudi) o, in francese, «L’Organiste aux Pieds Nus». Come accennato, nell’ottobre del 1969, l’organista del New Jarsey sposa il suo Pigmalione, Raoul Saint-Yves, mentre la sua produzione diventa inarrestabile. Il vero capolavoro, primo passo verso la consacrazione, arriva nel 1971 con un doppio album registrato dal vivo, «Live At The Olympia», cui seguiranno altre pietre miliari come «In New York With Thad Jones and Mel Lewis Jazz Orchestra» del 1975 e «With Kenny Clarke» del 1977. In «Live At The Olympia» la gran dama dell’organo Hammond, accompagnata dal sassofonista-flautista Joe Thomas e dal batterista Cees Kranenburg, suona, canta e distilla un jazz generoso ricco di swing, gospel dal sapore churchy, schegge soulful, groove funkiness ed un tocco di blues.

L’album ebbe un forte risonanza in Francia ed un discreto riverbero a livello mondiale, mentre la stampa non elemosinò i complimenti: l’Herald Tribune scrisse: «Rhoda Scott is in love with music», sottolineando lo stato di grazia dell’organista, capace di mettere idealmente insieme il blues ed il jazz con Bach e Beethoven; France Soir titolò: «Rhoda Scott, la Pasionaria de l’orgue», evidenziandone umanità, charme, nonché l’abilità di aggiungere al soul, al rock, al jazz ed al blues un venatura di divina beatitudine; Le Figaro la definì «Le Plus beau visage du jazz», parlando di una musica che scaturiva da una femminilità profonda e da una forza interiore quasi religiosa; L’Aurore scrisse: «Più che di un concertò si è trattato di un vero festival della verità (…) I temi sono un pretesto, ma la sua genialità sta nell’improvvisazione». In queste parole non c’è esagerazione alcuna, in fondo quello di Rhoda Scott è un sound tanto gioioso quanto vivace, una musica facile da metabolizzare e dotata di sensori in grado di entrare nell’orbita di riferimento di ogni ascoltatore anche distante dal soul o indifferente al jazz.

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