// di Guido Michelone //

“Giuseppi Logan (1935-2020) scompare dalla scena musicale nei primi Seventies (c’è un’ultima foto scattata da Valerie Wilmer che lo ritrae seduto su un letto con un flauto traverso in mano) e per oltre tre decenni nessuno ne conosce il destino.”

Carico di problemi personali, Giuseppi Logan (1935-2020) scompare dalla scena musicale nei primi Seventies (c’è un’ultima foto scattata da Valerie Wilmer che lo ritrae seduto su un letto con un flauto traverso in mano) e per oltre tre decenni nessuno ne conosce il destino. Ma nel 2008 Giuseppi, capelli grigi, barba lunga, abiti dismessi, viene filmato da un gruppo missionario cristiano a New York dove si trova da pochi mesi, trascorrendo invece il resto della ‘scomparsa’ con una serie di ‘dentro e fuori’ in diversi istituti della Carolina del Sud e del Nord; più o meno nello stesso periodo la regista tempo Suzannah Troy gira il primo di molti cortometraggi su Logan mentre si esercita a improvvisare al sax nel luogo di ritrovo preferito, il Tompkins Square Park. Successivamente Logan è oggetto di un importante articolo di Pete Gershon su ‘Signal to Noise Magazine’ (edizione primavera 2009) in cui descrive i preliminari della rentrée con un concerto al Bowery Poetry Club nel febbraio 2009.

Il 6 Aprile 2009 Giuseppi si esibisce, in quintetto, a New York nel Local 269 come parte della serie di recital della RUCMA. Alla fine dello stesso anno appare nel breve documentario Water In The Boat di David Gutierrez Camps, dove le improvvisazioni musicali formano la colonna sonora. Esce intanto il nuovo album The Giuseppi Logan Quintet (il primo da 44 anni in qua), con gli ‘storici’ freemen Dave Burrell e Warren Smith e i nuovi Francois Grillot e Matt Lavelle, contenente, tra gli altri, cinque inediti original del leader. Lo si vede inoltre film documentario Water in the Boat (uscito nel 2010) di David Gutierrez Camps, accompagnato da tutte le sue musiche.

Il 10 luglio 2010 il nuovo Giuseppi Logan Quartet è al primo Annual Albert Ayler Festival a Rosevelt Island, mentre nell’ottobre 2011 il saxman registra sei brani con “una band di giovani musicisti sperimentali” (Larry Roland, Cooper-Moore, Tracey Silverman, Ed Pettersen) per un album dal titolo The Giuseppi Logan Project e ancora nell’aprile 2012, lo si vede pimpante a New York a esibirsi come musicista di strada: e di nuovo di lui, poco alla volta, si perdono le tracce finché nell’aprile del 2020 appare la notizia del decesso per Covcid-19 in un ospedale newyorchese.

Del suo album migliore, The Giuseppi Logan Quartet (ESP 1964) così si esprime Gaetano Liguori: “In questo disco lo accompagnano alcuni pilastri dell’avanguardia degli anni Sessanta; Milford Graves alla batteria, Eddie Gomez al contrabbasso e Don Pullen al pianoforte. Al sax alto Logan da sfogo alla più libera improvvisazione su pochi grappoli di note dove ai riff seguono sofferte intensità liriche che arrivano da luoghi profondi: siamo insomma nei paraggi di Ornette Coleman e Albert Ayler. Nel primo brano Logan utilizza l’oboe pachistano che offre echi di sonorità primordiali. Una musica in cui Africa, Oriente, America contemporanea sono fusi insieme alla rabbia di una negata identità culturale”.

All’uomo e al musicista ho dedicato il racconto Free Jazz New Thing (la scomparsa di Giuseppi Logan)che appare nel mio nuovo libro di narrativa Io sono un jazzista e altre storie (Melville Edzioni, Siena 2022), di cui discuto assieme a Giuseppe Garavana in quest’intervista (riportat parzialmente anche alla fine del volume).

Come nasce questo pezzo difficilmente collocabile in una categoria letteraria?

Nasce come poema, che poi si è trasformato in monologo e quindi in una pièce teatrale che fu presentata, tra il 2000 e il 2001, in un paio di jazz festival famosi, con un’attrice quale voce recitante, più un gruppo jazz variabile da tre a sei musicisti con parti improvvisate e concordate con il band leader. Sotto quest’ultima veste, con qualche aggiunta, La scomparsa di Giuseppi Logan con il titolo principale Jazz in polvere viene poi pubblicato nella mia antologia Teatro Jazz Drammaturgie nel 2003. Ma ora ho voluto farne una riscrittura più o meno radicale.

In che senso riscrittura più o meno radicale?

In origine avevo pensato a un romanzo in versi che avesse il ritmo di un lungo brano jazz, altamente improvvisato, come certi dischi free o anche hard bop. Tengo però a precisare che non credo nella traduzione da un linguaggio all’altro, non credo insomma che si possa tradurre un quadro, una statua, un film, una poesia, un racconto in un pezzo jazz o in un intero album e nemmeno in una sinfonia o altra musica. E viceversa! Non puoi nemmeno descrivere un brano jazz strumentale a parole se non usando un lessico specialistico (le note musicali) o usando metafore e allegorie spesso inverosimili. Però con le parole, il lessico, la sintassi ho tentato di ispirarmi al ritmo e al fraseggio di certo jazz informale.

Ma in quale modo si può, allora, fare letteratura jazz?

In infiniti modi, non ci sono regole fisse. Chi ha cercato di teorizzare qualcosa, come Jack Kerouac, lo ha fatto a proprio uso e consumo, scrivendo più una poetica che una trattatistica, accostando ad esempio la struttura della poesia haiku giapponese agli assolo del bebop: ma è un punto di vista, non una regola universale! Io ad esempio ho agito per suggestioni, avendo in testa alcuni suoni e di conseguenza scrivendo, ad esempio, frasi brevi, ripetendo di fila alcune parole, usando qualche onomatopea. Però sono convinto che se, per gioco, come in un compito in classe da liceo, venisse dato come tema a dieci romanziere di scrivere un monologo sulla vita di Giuseppi Logan, dopo averne letto la biografia e ascoltato i suoi due unici dischi, verrebbero fuori dieci lavori molto diversi tra loro!

Allora veniamo al protagonista del suo lavoro, Giuseppi Logan, un musicista realmente esistito, vero?

Sì, un sassofonista, un jazzman che avevo scoperto quand’ero studente universitario, quando era già scomparso, senza però che io lo sapessi. Una volta, negli anni Ottanta, sulla rivista «Musica Jazz», lessi che molti vecchi colleghi erano andati alla ricerca di Giuseppi Logan, di cui non avevano più notizie dal 1973. Alcuni fornirono alla stampa le notizie più stravaganti, che fosse impazzito e quindi rinchiuso in manicomio o che chiedesse la carità in alcuni quartieracci di New York o che addirittura insegnasse alle scuole elementari di uno sperduto paesino dell’immensa provincia americana. Poi, d’improvviso attorno al 2008 Giuseppe Logan ricompare, qualcuno lo riconosce mentre suona il sax tenore in un giardinetto di Brooklyn, molto invecchiato e con le stimmate di un barbone. Riesce a suonare in alcuni club e a registrare tre dischi per una piccola casa discografica. Muore il 24 aprile 2020 per Covid. Ma chiaramente questa sua riscoperta non l’ho voluta raccontare, avrei dovuto alternare completamente il senso di tutto il mio lavoro.

Infatti, proprio al ‘senso’ volevo arrivare. Che senso ha avuto, per lei, occuparsi di Giuseppi Logan? O in altri termini quale senso attribuisce al suo monologo o racconto che dir si voglia?

Direi che forse ogni lettore potrebbe trovare tre sensi, o almeno tre chiavi di lettura, che vorrei qui indicare. Innanzitutto ho voluto ‘sperimentare’ come Giuseppi Logan, non essere Giuseppi (sono così diverso a lui in tutto e per tutto) ma cercare di avere lo stesso impeto creativo: ho cercato di essere free soprattutto nell’uso della seconda e terza persona singolare e della prima plurale con cui parla il protagonista senza una logica apparente, come un’improvvisazione atonale. Poi rievocare un personaggio all’epoca, nel 2000, completamente dimenticato, oggi pure, perché i tre dischi pubblicati tra il 2009 e il 2011 non sono stati per nulla discussi dalla critica italiana. E infine evocare nostalgicamente il sogno di una rivoluzione, l’epopea di una controcultura, l’utopia di una musica, il tutto racchiuso nell’espressione free jazz o new thing, più o meno equivalente, a seconda dell’importanza che gli stessi jazzmen attribuivano al sostantivo ‘jazz’, da alcuni persino rifiutato perché ritenuto terminologia schiavista o razzista.

Free Jazz New Thing (la scomparsa di Giuseppi Logan) funziona anche come solo lettura, senza musica?

Direi di sì perché nasce come testo letterario, dotato di una propria autonomia, ma in grado di confrontarsi anche con jazzisti in gradi di interagire con la parola. Forse questa nuova versione avrebbe bisogno di un ulteriore riadattamento ma è troppo presto per discuterne, vediamo prima come funziona nel nuovo libro!!!

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