Pubblico ben volentieri questa intervista ad un personaggio che ho sempre ammirato e stimato, per la bravura ed il talento va da sé, ma anche e soprattutto per la sua disponibilità. Ronnie Jones è un vero artista, di quelli con la A maiuscola, in parte già consegnato agli annali della storia della musica contemporanea per ciò che ha fatto nell’ambito della disco-dance e dei generi musicali di consumo giovanile legati al mondo delle discoteche e nel settore radiofonico e televisivo. Oggi Ronnie Jones è autore ed interprete raffinato, a metà strada tra blues e soul, un moderno crooner dalla voce melodiosa ed avvolgente, un musicista in continuo fermento creativo. Alle sue spalle c’è una lunga storia di DJ, cantante, musicista e presentatore, non senza difficoltà, i cui momenti più belli, come egli stesso ci racconta, sono legati proprio a quel periodo in cui la «disco» era la sovrana incontrastata delle classifiche, delle radio e delle discoteche.
D. Ciao Ronnie, intanto una domanda di rito. Che ricordo hai di quegli anni, soprattutto gli anni ’70, quando la disco music era l’assoluta padrona della scena musicale. Che atmosfera si respirava?
R. Credo che per me, sia stato il momento più glorioso della mia esistenza. Soprattutto, perché con il mio produttore, un giovanotto tedesco di nome Jurgen S. Korduletsch, ho quasi toccato il cielo con un dito. E poi perché ero tra i DJs più richiesti d’Italia, avendo fatto RAI Radio e le prime Radio Commerciali. Si era un bel momento.
D. Parliamo dei tuoi esordi europei. Tu sei arrivato, appena ventenne, in Inghilterra dalla Corea dopo il servizio militare, tra l’altro con l’attestato di migliore cantante di Rhythm and Blues di tutta la flotta da Londra a Monaco. E in Inghilterra volevi cantare il blues, in parte ci sei anche riuscito. Poi sei approdato nella Germania Ovest, all’epoca le Germanie erano ancora divise, quindi da quelle parti c’era una marcata presenza americana soprattutto nelle basi Nato. Anche in Germania volevi tentare la carta del blues, però forse ti sei reso conto che l’aria stava cambiando e che la disco music cominciava ad esplodere. Beh, raccontaci tu, come andarono veramente le cose?
R. La storia è un po’ confusa. Sono arrivato in Inghilterra, da casa mia, dopo il ritorno dalla Corea nel ’55, poi di nuovo con l’USAF, sempre con una breve sosta, a casa, nel Massachusetts. Okinawa, Phillippines, Taiwan, e durante la crisi in Quemoy, (con la China), quindi di nuovo a casa, poi infine, Inghilterra, portando con me il mio piccolo trofeo vinto in Mississippi, nella base di Keesler (Scuola Militare di Telecomunicazione), ossia il titolo di miglior gruppo nella gara «Tops in Blue» (blue per il colore della divise della United States Air Force). La gara mi valse il titolo di migliore artista della base, e dopo tre mesi, avrei dovuto gareggiare con il settore East Coast di tutte le USAF. Spero che mi capisci. Sì, ero molto orgoglioso. Dopo, l’Inghilterra mi ha offerto la possibilità di allagare il mio bagaglio musicale introducendomi nel mondo del blues, di cui sapevo poco o niente. E dopo il mio congedo dalla vita militare, sono tornato in Inghilterra per intraprendere sul serio l’attività di cantante, fondando i Nighttimers. Dopo un breve periodo con loro, cambiando band e musicisti, arrivai in Italia con i Que Set, band di colore di Londra. Dopo la scioglimento del gruppo, sono rimasto solo, facendo varie cose: dall’attore, con comparse in tanti film ed, infine, come DJ. Dovevo pure lavorare in qualche modo. Per mia fortuna, conobbi Jurgen, che sentendomi cantare in una Discoteca di Rimini una sera, mi offrì di interpretare un suo pezzo dance. Ecco la Germania! Non la musica Blues o Rhythm and Blues, ma il nuovo stile: la disco-music!
D. Prima di partecipare alle prime produzioni disco-dance, in Germania avevi cominciato a esibirti anche come DJ. Com’erano i locali dell’epoca, che cosa chiedeva la gente, soprattutto eri favorito in questo mestiere, quello del DJ, ancora tutto da costruire, per il solo fatto di essere americano? Anche perché, all’epoca buona parte dei prodotti musicali destinati alle discoteche arrivavano in Europa dagli USA.
D. Come ho già avevo spiegato, fu un puro caso, perché durante la mia permanenza nelle USAF, avevo fatto il DJ per gioco in Corea, col permesso del comandante della Base militare, giusto per divertire i miei commilitoni con le loro canzoni preferite, attraverso il sistema audio della base. Eravamo non più di 200, in un distaccamento lungo la costiera di Corea. Lontano da nostri cari. E quando mi hanno offerto questo mestiere come opzione, accettai perché dopo HAIR, con Zero, Teocoli e la Berté, nessun produttore mi aveva aiutato a proseguire come cantante. Fai conto che dopo Bill Conti, (si, quello che scrisse la musica di Rocky), il direttore musicale della nostra compagnia musicale, mi scelse per prendere il suo posto, dopo aver deciso di ritornare in America. Ma niente gloria per me. Allora mi chiamò un DJ francese che mi chiese se volevo provare a fare anch’io il DJ. Accettai subito per necessità, ma con poca voglia. Si, essendo nero ed anche americano, mi ha aiutato un po’, pero il mestiere non lo conoscevano e ho dovuto impararlo allo svelta. Sugli artisti, ero poco informato, quasi per niente, e sulle canzoni altrettanto. La RAI, avevano solo vecchie canzoni della passata generazione e non molto materiale del nuovo genere, quasi niente. Si, diciamolo, non sapevo niente, di niente. Io volevo cantare.
D. La tua base di lancio internazionale fu la Germania, soprattutto Monaco di Baviera, all’epoca un vero laboratorio di sperimentazione, una sorta di fucina inarrestabile ed inesauribile per la disco music di livello planetario. Fu facile adattarsi a quell’atmosfera tedesca? E come avvenne il passaggio dal blues alla disco music, genere non meno nobile, ma forse più disimpegnato? Ti contattarono, all’epoca era in uso reclutare voci americane di stanza in Germania, oppure ti sei fatto avanti tu, perché credevi in questa naturale evoluzione?
R. Anche la mia introduzione nel mondo della disco music, è stata un caso. Lo stesso amico DJ che mi ha lanciato in questo nuovo mestiere, mi fece chiamare per prendere il suo posto in un locale di Bologna. Mi lasciò il posto alla svelta perché aveva litigato con un cliente. Mi lasciò i dischi e tutto. Cosi ho iniziato. Piano, piano ho cominciato a capire la musica ed a far muovere le gente. Passando da un locale a l’altro, sono finito a Cortina D’Ampezzo, lì nella Jet-Set, conobbi altri DJs, che mi hanno aiutato a capire meglio il nuovo sound. La Discoteca faceva parte una catena di tre locali: il Kings di Mestre, il Bilbo di Cortina e Bilbo (Pasha) di Riccione, quindi lavorai in tutti e tre i locali. Qui ho conosciuto Jurgen S. Korduletsch, il quale durante il suo lavoro/vacanze, passava il giorno in spiaggia a Rimini e Ancona e si pagava la vacanza vendendo dischi ai vari locali. Parlando con lui, una sera, dopo avermi sentito cantare sulla musica strumentale che portavo con me, mi chiamò dopo lo show, al suo tavolo, chiedendomi se volevo fare il cantante. Ho risposto di sì e gli ho lasciato il mio recapito. Due settimana più tardi, mi telefonò per invitarmi ad andare in studio a Monaco, dove feci il mio primo vero disco: la cover di «Rock Your Baby» di George McCrae. Il mio mondo cambiò radicalmente!
D. Nel 1977, se non sbaglio, arriva il suo primo disco come solista, che in Germania entra subito in classifica. Uno dei brani, «It Takes Two», è cantato in coppia con Claudja Barry all’epoca considerata una delle reginette della disco. Ricordo un altro vostro splendido duetto «The Two Of Us». Da lì poi, per alcuni anni, il tuo nome è stato associato alle discoteche, all’attività di DJ e interprete disco-dance. Ci spieghi i vari passaggi, magari anche il ricordo che conservi di Caludja Barry?
R. Un giorno durante i miei tanti viaggi in Germania, mi presentarono Claudja Barry, una ragazza giamaicana bellissima che aveva fatto parte inizialmente dei «Boney M». Jurgen mi disse, magari troveremo una canzone da condividere. E cosi fu! Arrivò «It Takes Two». Ma nel frattempo «Rock Your Baby» venne pubblicata in grande stile della RCA Italiana. Alla Rifi Records, non credettero nella canzone. Jurgen ci rimase male, così ci spostammo alla Polygram con la canzone «Soul Sister» da me interpretata, mentre «It Takes Two» decollava in Italia, quasi un successo. Dico quasi, perché abbiamo fatto di tutto per arrivarci, ma qualcosa non ha funzionato. Magari perché io vivevo qui in Italia e non all’estero. A questo punto Jurgen spostò l’etichetta alla Ricordi, ma li ci siamo rimasti poco. Jurgen non era soddisfatto di come mi supportavano: il budget per la promozione dei miei prodotti era quasi niente, quindi ci siamo spostato in WEA, lanciando un nuovo duetto «The Two of Us», sembravo fatto, ma tra di noi, con la Claudja, qualcosa si è incrinato. Rottura brusca. Jurgen si spostò negli States, mentre io rimasi in Italia, dove ho iniziato a lavorare con Full Time Records di Franco Donato, ma è durata poco: solo due dischi. Pero prima di chiudere la collaborazione, ho scritto insieme Michele Violante la versione inglese di «Let’s All Dance» dei Band of Jocks. Fu un grande successo che mi ha riportato in TV con i più famosi DJ radiofonici del momento. Federico L’Olandese Volante, Enzo Persuader e Gianni De Beradinis e Leonardo, per citare quelli che riesco ricordarmi in questo istante. Eravamo in 10 (dieci). Si, e lì per lì, tanti serate in tutta la penisola italiana. Non ho più sentito il nome della Claudja, finché con il nuovo genere Hip Hop, venne ripresa la sua «Love For The Sake of Love». Questo è avvenuto negli anni ’90.
D. Poi il tuo arrivo in Italia, dove presto sei diventato una specie di icona per tutti i giovani DJ, che come me lavoravano nelle radio o nelle discoteche. Ronnie Jones era sinonimo di artista americano di successo per metà cantante e per metà DJ, che sapeva intrattenere, aveva un suo stile, proponeva un suo sound, un suo groove. Le radio private e le discoteche italiane ti accolsero benissimo, anche la RAI che ti affidò un programma. Che differenze notavi in Italia, rispetto alla scena disco americana, inglese o tedesca? Gli Italiani erano più esigenti, partecipavano di più o che cos’altro?
R. La verità, e che non avevo mai messo piede in una discoteca Americana, finché non mi c’ha portato la Claudja Barry. Abbiamo promosso «The Two of Us, sembrava che i Gay d’America l’avessero scelta come loro inno per la prima Gay Olimpiade a San Francisco. Purtroppo non siamo ritornati a farlo. Da quello che ho visto dei 5 locali dove ci siamo esibiti, ho trovato discoteche meno belle di quelle Italiane. Non ho mai visto il famigerato Studio 54. Sì, insomma, sono rimasto deluso…
D. Che effetto ti fa sapere che un pezzo come «Soul Sister» viene citato in tutti gli annali della storia della club culture come uno dei più belli in assoluto e, a tutt’oggi, è fra i più ricercati ed apprezzati dai cultori della disco music e dai collezionisti di vinile?
R. Per la verità, rimango esterefatto di questa cosa. Anche se a Montreal ha venduto 150 mila copie, solo in quella città. E in Canada, Montreal è come San Marino. Fu un grande momento nella mia vita: essere portato come un «star» alle «Juno Disco Awards», l’Oscar della musica da discoteca del Canada. Ma mi è dispiaciuto che non sia stato visto bene qui in Italia. Ma si ritorna al fatto che se fosse stato prodotto all’estero e l’artista veniva dall’estero, sarebbe stato meglio, io credo. Mah! E andata come andata…
D. Che ricordo hai del periodo della Band Of Jocks di cui eri uno dei protagonisti? E poi, come e quanto è cambiato secondo te il mestiere del DJ?
R. Il momento con la Band of Jocks, è stato memorabile. Lavorare con tutti loro, insegnarli a fare il rap ed, a qualcuno uno di loro, anche a cantare. Ci siamo divertiti molto. Certo, io e la compagna di Violante, abbiamo fatto i cori per il disco in maniera professionale. Alcuni di loro non erano, però, molto intonati. (ride). Ma il per video di Let’s all Dance ci siamo divertiti al massimo. Peccato, sul più bello, prima di entrare in classifica, qualcosa non ha funzionato li. Credo tra il producer e la casa discografica Full Time. Perché mancò quel piccolo sforza in più da parte loro. Comunque, il primo pezzo ci ha portato a Canale 5, riprendendo Popcorn, dove io avevo iniziato 5 anni prima. I DJs ci cercavano. Gianni Naso, che aveva fondato con Renzo Arbore l’AID (Assoc. Italiani Disc Jockey), per insegnare e riunire tutte i DJs d’Italia. Fu un grande momento. Poi a tutto un tratto, la musica cambiò, la disco music cominciava a stancare. I DJs volevano far vedere che erano più bravi dei musicisti a fare musica. La canzone è stata buttata via per fare spazio alla ritmo puro, le canzoni sono diventate filastrocche con l’hiphop e il rap. Mi sentivo perso, quindi ho ripreso cantare, come quando arrivai in Italia…
D. Esiste una tua personalissima versione in inglese di «Der Kommissar», con il titolo di «Don’t Turn Around». Avevi conosciuto Falco, oppure fu un idea sviluppata a tavolino?
R. The Kommisar, or Commisioner. Beh, Jurgen mi chiamò chiedendomi se volevo provare a fare in inglese questo pezzo che stava spopolando in Germania. E visto che io avevo fatto «Cosmo Rap», ho detto proviamolo. E andata finché, credo Falco in persona ne fece anche la sua versione. Purtroppo. Non ci siamo mai incontrati.
D. Adesso una domanda difficile, che prevede una risposta anche non politically correct. Che cosa ne pensi degli attuali produttori dance? Molti di essi sono improvvisati, approssimativi e, in massima parte, completamente digiuni di musica, ma abili nei campionamenti e nell’uso delle nuove tecnologie. Pensi che si dovrebbe tornare a fare delle cose più suonate, anche se destinate alle discoteche?
R. Mi stai provocando, vero? Come musicista, posso dire che non sono molto d’accordo con tutto ciò che sta succedendo nella campo della musica da discoteca. Tutto è stata falsificato dalla nuove leve di produttori. Anche con l’Hip Hop, parolacce, loops e campionamenti di canzoni. L’ultimo rip off ai danni della mia «Video Games», puro plagio, o quasi, da parte dei Daft Punk con la loro Technologic. A me e alla produzione non ci arriverà mai niente. Pure senza la parte melodica, è Video Games. Mi hanno anche salutato su YouTube. No, direi no, non son felice, perché in molti casi, l’arte della musica ha perso qualcosa!
D. Conosciamo bene le tue importanti collaborazioni internazionali con artisti di grosso calibro, ma per i nostri lettori, qual è attualmente l’attività di Ronnie Jones, parlo di concerti, dischi, jam sessions, special guest?
R. Io avevo detto, che ero disposto a cantare canzoni per bambini, o qualsiasi genere, pur di arrivare ad essere conosciuto nel mondo della musica. Qualcosa ho fatto, ma non abbastanza. Manca la possibilità di tornare in America come personaggio internazionale è dire: «Eccomi finalmente a cantare per voi, a casa mia». Ho fatto di tutto con tutti, concerti, dischi in vinile e CD, 4 nel genere disco music e 3 con canzoni mie o interpretazioni di altri autori, che voi chiamate «cover». Sono sempre alla ricerca di affermarmi come cantante. In continuerò fino alle fine! E credo che in qualche modo di farcela
D. Sicuramente, ce la farai! Grazie Ronnie per la tua disponibilità, il nostro progetto s’impreziosisce anche grazie al tuo contributo.
R. Grazie a voi per avermi offerto l’opportunità di esprimermi liberalmente. Augurandomi che ai vostri lettori possa piacere la mia storia infinita. Perché «it’s not over until it’s over» tradotto: Non è finita, finché c’è vita…