Tanti anni fa, un mio vecchi amico d’infanzia romano, il cui futuro suocero, oltre a lavorare in RAI era molto ammanicato con l’industria discografica, mi dice che mi avrebbe procurato un’intervista per la radio con uno dei fenomeni disco del momento: i Santa Esmeralda; in particolare con l’unica figura reale del fantomatico gruppo creato in laboratorio, il cantante Leroy Gomez. C’incontriamo in un piccolo ristorante non lontano dalla Circonvallazione Clodia. Mi ero vestito da fighetto e con abiti alla moda, come se avessi dovuto andare in discoteca. Lui mi guardò e disse: «Me gusta mucho la ropa y la comida italiana». (Mi piacciono molto i vestiti ed il cibo italiano).

Leroy Gomez era allegro e conviviale, anche perché il suo primo album, «Santa Esmeralda» stava scalando le classifiche vendendo decine di migliaia di copie in tutto il mondo. Gli chiedo se fosse di origine spagnole, ma lui precisa: «Spagnolo? Mah, noi statunitensi ispanici prima eravamo considerati non americani, e se io porto questo cognome, probabilmente lo devo a qualche spagnolo che un giorno approdò sulla terra promessa. Io personalmente non l’ho mai conosciuto, e la prima volta ho visto la Spagna è stato qualche tempo fa ».

La disco-music fabbricava personaggi in vitro ma soprattutto suoni godibili e ritmi accattivanti. Non tutti gli eroi delle pista da ballo erano in carne ed ossa come Barry White, le Ritchie Family, gli Chic o Donna Summer. In molti casi l’intero pacchetto disco era una creazione del produttore, una sorta di deus ex-machina, musicista e manager al contempo, colui che s’inventava tutto, dai titoli alla trovata scenica, dalla melodia al ritornello-tormentone, dal soprannome al look del personaggio, un piccolo genio da studio di registrazione capace di trasformare una bella voce in un idolo stagionale, a volte rappresentato da un modello o una ragazza immagine. I casi più emblematici di prodotti costruiti a tavolino furono le Silver Convention ed i Money M. Il produttore di Leroy era un certo Jean Manuel De Scarano, di chiare origini partenopee, il quale parlava con un italiano dialettale da immigrato negli USA. Il nostro uomo, aveva fatto credere a tutti che i Santa Esmeralda fossero una vera band, con tanto di chitarrista classicheggiante, batterista poderoso e fiati di prima qualità, vagheggiando di stupende e sensuali ballerine spagnole. In verità, sul palco per gli show-case italiani c’erano solo tre ragazze pon-pon da avanspettacolo, precedentemente licenziate dall’Ambra Jovinelli. L’idea di rinverdire un classico come «Don’t Let Me Be Misunderstood» era stata un idea di De Scarano, che per il resto si era, però, affidato a Loroy, il quale musicista lo era per davvero. Il Nostro aveva composto, cantato e suonato.

A trovarselo davanti non riuscivi però ad inquadrarlo bene: di certo era un mezzo sangue, un incrocio di razze, ma non si capiva se fosse metà nativo americano, nero, spagnolo o qualsiasi altra etnia. Leroy, però, la musica l’aveva studiata sin da bambino. Originario di Wareham, una cittadina situata tra le montagne del Massachussetts, un tempo abitata da cercatori d’oro, proveniva da una famiglia discretamente benestante, ma gravata dall’estrema facilita con cui mamma e papà mettevano al mondo tanti pargoli. Nato l’8 luglio del 1950, Leroy era l’ultimo, la mascotte di casa, anche se alto quasi un metro e novanta e, da piccolo, un po’ complessato, timido, triste ed introverso. Tanto che, alla mamma preoccupata, il medico di famiglia aveva consigliato di farlo avvicinare alla musica: «Fategli suonare uno strumento, uno strumento aggressivo, il sassofono ad esempio, e vedrete che la timidezza svanirà». Cosi il giovane Leroy tornò a casa con uno sfavillante sax. Ecco dove si può arrivare dopo un’infanzia tanto tormentata alle spalle, quasi una storiella da sogno americano.

Quindi come e quando sei entrato a far parte di un gruppo, gli domando.

«Quando parlo del miei primi anni come sassofonista, tutti mi immaginano entusiasta nell’imitare il soul di Detroit o il jazz di Parker, io invece, pur amando il sax, ero un patito della musica rock e con il mio strumento mi sforzavo di imitare Jimi Hendrin o i Led Zeppelin ».

Dopo anni di gavetta, un vecchio amico, bassista session-man in varie formazioni disco-soul, lo introduce nel giro, proprio mentre ai Tavares mancava proprio un sassofonista. «Quando racconto qui in Europa della mia esperienza con i Tavares la gente si meraviglia molto poiché dico che non era poi tanto facile campare anche con loro. I Tavares negli States, soprattutto allora, erano uno delle centinaia e centinaia di gruppi vocali con quello stesso sound, con quel medesimo ritmo. Certo, da loro ho imparato la professionalità, soprattutto il senso scenico e spettacolare, questa grande capacita che i gruppi neri hanno nel comunicare col pubblico. Sono rimasto con loro per parecchio tempo: si suonava fino a notte inoltrata, si dormiva poco e si ripartiva. Era terribile e non si vedevano molti soldi, ma per me era già molto».

Mentre il mio piccolo registratore portatile continuava a girare, cerco di incalzarlo con le domande. A questo punto che succede?

«Poi, per una delle solite combinazioni della vita, dai Tavares sono finito ad accompagnare Elton John in una sua lunghissima tournée in USA; io facevo parte di un’orchestra, tutta americana che seguiva il cantautore. Qui di professionismo ne ho visto tanto, di soldi abbastanza e non ci siano nemmeno tanto stancati. Inutile dirti che con Elton non ho potuto scambiare nemmeno una parola: tra lui e i suoi musicisti, salvo i vecchi amici, c’era lo stesso rapporto che c’e tra il proprietario di una grande azienda e gli operai».

Rimasto nuovamente senza lavoro, con i soldi guadagnati, Gomez decide di misurarsi finalmente in prima persona, iniziando a girare con un sax amplificato ed esibirsi come solista facendosi chiamare Lee Roy. Finché un incidente non gli distrusse la complessa amplificazione del sax.

Non sei molto soddisfatto di quel periodo, gli chiedo.

«Meglio dimenticare! Solo quando si ha fame si fanno certe cose. Con i pochi soldi rimasti, dagli States sono andato a Parigi. A un certo punto non avevo più un dollaro, avevo fame e cominciai a girare in cerca di un lavoro. Dopo un paio di mesi ero in sala di registrazione per Santa Esmeralda».

Il progetto Santa Esmeralda gli aprì finalmente le porte della notorietà, pur essendo il classico prodotto disco-music di tipo europeo, lontano dall’estetica della black-dance, con battiti di mani, chitarre spagnoleggianti, soli di batteria, voce sexy-sussurrante. Ciononostante «Don’t Let Me Be Misunderstood» era diventato uno dei tormentoni più riusciti ed attraenti di quegli ultimi mesi (ancora resiste ed infiamma le piste). Bastava dare uno sguardo alle classifiche di vendita o all’euforia che provocava in pista.

A questo punto gli domando come era nata l’idea.

«Semplice, io e il mio produttore abbiamo deciso di rielaborare un paio di brani famosi, come fanno ormai tutti. La scelta è caduta su «Gloria» e «Don’t Let Me Be » perché erano due brani legati alla mia prima giovinezza, quando impazzivo per gli Animals o per Van Morrison. A questo punto mancava l’idea, quel qual cosa che costituisse la novità, la tentazione per ascoltare l’album. Dopo un paio di settimane maturò l’idea della Spagna, ossia fare un flamenco a tempo di disco-music. A questo punto mancavano solo degli ottimi session-man: la parte strumentale e il sound furono molto curati grazie all’arrangiamento di Don Ray (Raymond Donez), la chitarra flamenca di Jose Suc e l’ottima chitarra elettrica di Slim Pezin. Oggi tante idee in ambito disco sono rovinate da una pessima produzione. Noi abbiamo voluto fare le cose seriamente fino in fondo. Il chitarrista, ad esempio, era molto, molto bravo, l’effetto stereo è stato curato nei dettagli, cosi come la diversità dei timbri tra il battito delle mani e la batteria. Io, personalmente, ho seguito l’organizzazione dei fiati e suonato il sax».

In quel ristorantino romano avevo davanti un giovane uomo pieno di energia e di belle speranze: il successo era arrivato e gli impegni s’infittivano. Perfino la mamma, che non vedeva da più di un anno il figliuol prodigo, aveva appreso dalla radio, laggiù nel lontano Massachussetts, che il suo (timido) ragazzo, in Europa, stava andando a gonfie vele.

In conclusione, una domanda di rito: Adesso che progetti hai?

«Non credete che il successo mi impedisca di pensare. Ho già programmato il mio futuro. Innanzi tutto meno spazio a chi mi circonda e qualcosa in più al mio personaggio. Poi subito la formazione di un gruppo: non posso più presentarmi con due ballerine. Se la gente si aspetta di vedermi con un sacco di musicisti bisogna accontentarli, anzi dare loro qualcosa in più di quanto si aspettano. E qualcosa in più la vorrei anch’io. Siccome suono, compongo e canto, la disco-music mi sta abbastanza stretta, anche se non la rinnego. Ho atteso per anni questi giorni di successo e perché me li dovrei far sfuggire per sempre?».

Oggi ex-post sappiamo che molte delle belle speranze di Leroy Gomez sono andate tradite dalla caducità del fenomeno disco-music e che gli album successivi, pur sfruttando la scia positiva del primo, hanno raggiunto traguardi minimi. «Don’t Let Me Be Misunderstood» resiste all’usura del tempo e non manca mai di stimolare un trenino di gruppo o un happening collettivo in qualsiasi festa o serata dance-revival, ma come tutti gli unicum che hanno caratterizzato le tante meteore degli anni Settanta ed Ottanta.

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