«After The Rain» di Giuseppe Magagnino, da qualche giorno immesso sul mercato dalla GleAM Records, è una piacevole sorpresa che mette in risalto il dinamismo creativo del pianista salentino, il quale mostra una naturale evoluzione rispetto all’album d’esordio «My Inner Child». Al netto di ogni mera semplificazione, Magagnino in questo nuovo lavoro appare fortemente rigenerato e più consapevole dei propri mezzi espressivi, che nascono da una visione non convenzionale dello scibile jazzistico e che si arricchisco perennemente man mano che la vita, gli stati d’animo, gli eventi e le suggestioni esterne si addensano intorno all’artista, stimolando le sue ghiandole creative a secernere un articolato quadro emozionale da tradurre in musica.

Le parole del mio amico Francesco Cataldo Verrina, presenti nelle note di copertina del disco, conducono ad innumerevoli riflessioni in merito alla figura di questo estroso artista pugliese: «Giuseppe Magagnino è un musicista dotato di una circolarità evolutiva che si sviluppa a spirale, facendo sfiorare a volte i lembi estremi dello scibile sonoro. L’album «After The Rain» è una perifrastica attiva che muove il concept creativo verso un inusitato altrove fatto di confluenze e divergenze, arcani maggiori e minori, tempi pari e dispari, visioni antiche e moderne, temi a traccia libera e fedeltà al sistema, onde medie, onde corte e fuori onda, dialoghi e monologhi». Ciò che si percepisce è la complessità del concepimento creativo del pianista, con buona probabilità, caratterizzata inconsapevolmente da un metodo baconiano basato su una sofferta pars destruens e successiva pars construens ma che, nell’atto conclusivo di restituzione del concept al mondo, ossia di contatto diretto con l’utilizzatore finale (che per comodità chiamiamo ascoltatore), diventa empatico, fruibile, immediato e quasi cantabile, seppur mai banale e scontato.

Sin dal primo ascolto «After The Rain» risulta più accessibile e permeabile, come se le capacita comunicazionali di magagnino si fossero acuite ed abbia voluto allargare lo spettro creativo, grazie agli arrangiamenti e alla conduzione i di Alessandro Quarta, violinista di estrazione calssica con ottime frequantazioni pop. Le parole del Verrina contenute nelle liner notes del disco, sono alquanto esaustive: «In questo secondo tassello della sua discografia, il pianista salentino espande lo spettro della propria percezione audiotattile e, in alcuni momenti, rafforza il modulo di gioco a tre con l’introduzione di una sezione d’archi, l’ARTeM String Orchestra, che in talune partiture funge da vasodilatatore senza mai alterare la soluzione fisiologica di un jazz contemporaneo capace di guardare in molte direzioni». Va da sé che un’architettura tematica, incastrata in un fluente modulo ritmico-armonico, e così ben congegnata, non possa che nascere da un lavoro di ricerca imperniato sullo sviluppo melodico, frutto di una profonda capacità espressiva ed di una prolifica vena compositiva, anche se il pianista pugliese non disdegna l’uso di cover e standard da alternare ai suoi componimenti. I brani non originali: «But Not For Me» di Gershwin, «Ask Me Now» di Monk, «Jordu» di Duke Jordan «Blackbird» dei Beatles e «No Surprise» dei Radiohead vengono riportati quasi a nuova vita, sia sotto il profilo esecutivo che sulla tipologia di arrangiamenti adottati, i quali apportano lievi o decisivi cambiamenti alle strutture originali.

Come le note di copertina suggeriscono: «Ad esempio, «But Not For Me» mette in vetrina l’abilità di ricompositore del musicista pugliese e la sua capacità di reinventare gli standard riportandoli a nuova vita. Il celebre componimento di Gershwin, pur rimanendo integro nella struttura formale, viene completamente messo a soqquadro nel mood e nell’andamento ritmico, mentre l’ambientazione diventa più intima e brunita. Il trio, con Luca Alemanno al contrabbasso e Vladimir Kostadinovic alla batteria, risulta perfettamente allineato, mentre la fisicità dello swing appare narcotizzata da un’aura più sospesa e vagamente evansiana». Potremmo aggiungere che, mentre Magagnino sviluppa gli standard alla sua maniera, rigeneri anche sé stesso: approfondisce il fraseggio, imposta con cura gli aspetti ritmici e il quadro percettivo osservando quello specifico habitat sonoro da una nuova angolazione, senza distruggerne la forma originaria. Il caso più lampante riguarda il tributo ai Beatles come si legge sempre nelle sleeve notes: «La cover di «Blackbird» è un tributo ai Beatles più enigmatici. Il brano è contenuto nel «White Album» del 1968, una sorta di tabula rasa i cui i baronetti disarticolavano e rimodulavano la tradizionale forma a canzone. Così il tema beatlesiano, sotto i colpi del piano in solitaria di Magagnino, si solidifica in un foglio bianco su cui riscrivere sentimenti e stati d’animo attraverso un’accurata sintassi jazzistica, corroborata da innesti melodici fortemente soul-pop, dove la profondità delle note compensa perfino la mancanza del testo cantato – cosi come – «No Surprises», estratta dal cilindro magico dei Radiohead, evidenzia la cifra stilistica di Maganino e la sua innata capacità di oltrepassare la Linea Maginot del prevedibile e di abbattere le barriere architettoniche del pregiudizio. Così una ballata rock diventa un ricercato gioiello di narrazione jazz, in cui il tema base viene ricollocato in una dimensione più crepuscolare».

Magagnino, oltre ad una riuscita strategia adattiva ed esecutiva possiede una sua filosofia in relazione alla pioggia che, come egli scrive, è legata a tutte le sue composizioni, in cui il cielo plumbeo aiuta a riconoscere i punti più dolorosi e i nervi scoperti dell’essere artista, quindi diviene un momento di sofferenza propedeutico al parto creativo: «Dancin With Shadows», già presente in «My Inter Child» in piano solo, è un prototipo di jazz-waltz che in piano trio e con l’aggiunta dell’orchestra d’archi respira davvero un nuova aria. «My Prayer» si sostanzia come una ballata a tre punte, con Luca Alemanno al contrabbasso e Vladimir Kostadinovic alla batteria, dove Magagnino, in fase elaborazione tematica, riconferma la naturale propensione a sviluppare un dialogo quasi «cantato» tra pianoforte e contrabbasso. «Aftermidnight» è una composizione dai contrafforti soul-gospel in cui il trio gioca su un groove insanguato di blues. Il jazz è una continua palestra di vita, dove s’impara e si apprende ogni giorno e Magagnino, a modo suo, ne è consapevole: «Dopo la pioggia, in fondo, c’è la possibilità di mettere a frutto ciò che stiamo imparando in questo viaggio (la vita)».

Giuseppe Magagnino

www.doppiojazz.it

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