// di Francesco Cataldo Verrina //

Il terzo millennio ha allargato lo iatus tra il jazz e il mondo circostante; per intenderci si è ampliata la frattura e la distanza tra il jazz e l’idea di musica che, negli ultimi due decenni di vita sul Pianeta Terra, la stirpe umana ha sviluppato sotto il giogo della realtà aumentata e frantumata in un universo virtuale, dove il passaggio dal campo «estetico» a quello «sinestetico» ha stravolto perfino talune dinamiche percettive. Ciò avviene quando nel linguaggio della letteratura, dell’arte in genere e della semantica, in un particolare tipo di metafora, si uniscono in stretto rapporto due componenti che si riferiscono a sfere sensoriali diverse: da un sistema audiotattile si è precipitati in una dimensione surrettizia, in cui l’uditivo è stato surclassato dal visivo, dal visibile e dal visualizzabile.

L’odierno contrasto tra immagine ed immaginazione, tra immaginato ed immaginifico è piuttosto evidente quando ci troviamo a parlare di jazz, linguaggio e forma espressiva di natura aurale che ha difficoltà di adattamento in un contesto dove tutti guardano e pochi ascoltano. Per tanto il jazz, espiantato dall’universo e trapiantato nel metaverso, si trova a vivere una dimensione paradossale, in cui l’interazione sociale, sempre più immersiva e virtuale, avviene tra persone che non sono presenti nello stesso spazio fisico, soprattutto gli attanti, a prescindere dal tipo di tecnologia, sono più interessati a vedere e mostrare che non ad ascoltare. Il terzo millennio ha cambiato l’approccio percettivo dell’individuo che è passato dalla sfera narrativa e uditiva a quella visiva, dove l’immagine o il «guardabile» ha sostituito progressivamente il parlato e gli elementi acustici che fanno spesso da contorno. Oggigiorno c’è più musica guardata che ascoltata: «guardami su Youtube»; difficilmente sentirai dire «ascoltami su Youtube». Secondo le dinamiche comunicazionali contemporanee una cosa vale l’altra, mentre il jazz diventa un concetto «poppish», sia pure di lusso, o un «fetish» germanico, aperto ad ogni contaminazione, come una tela su cui imbrattare qualsiasi cosa, magari con il desiderio di incontrare gli elfi mentre suonano un’arpa celtica in un bosco scandinavo fitto di muschi e licheni. Questo è l’errore che commettono molti giovani musicisti. Cosi, il sogno di trovare l’ECM ad portas, si trasforma presto in un incubo.

Sono molte le sorprese che l’etichetta GleAM Records, sempre in ossequio al verbo del jazz, ci riserva, ma in questa circostanza sembra che abbia trovato la via di casa senza alcuna deviazione. «Introducing Wasted Generation», prodotto da Joe Sanders, nell’accezione più letterale del termine, rappresenta l’epitome del jazz che assume le sembianze di un plot sonoro forgiato con le armi del bebop, in un range espressivo che va dall’hard bop al post-bop modale, sconfinando in alcune forme libere a controllo numerico. Non parliamo di un jazz museale, imbrigliato in un formalismo d’altri tempi, stantio e calligrafo, ma di una dinamica espressiva contemporanea che rispetta gli assunti basilari della tradizione americana ed afro-americana, specie nella formula espositiva dove, a tratti, il tema viene annunciato dallo strumentista-autore. Questo è solo uno degli elementi rilevabili, ma non costituisce una deminutio capitis per il progetto nel suo insieme. Non siamo, per tanto, alle prese con un gruppo di giovani innamorati dalla gerontocrazia del jazz, che opera all’interno di un ospizio creativo. Per contro, Iacopo Teolis tromba e flicorno, Gabriel Marciano alto sax, Vittorio Solimene piano, Giulio Scianatico contrabbasso e Cesare Mangiocavallo rigenerano con estrema destrezza alcune ambientazioni del passato, ma senza mai affogare nelle lacrime della nostalgia. Con «Introducing Wasted Generation» si ha come l’impressione di ascoltare un disco del catalogo della Blue Note anni ’60 o della Impulse Records!, ovviamente lungi da ogni ricalco o tentativo di emulazione.

L’opener «Omron», contiene molti elementi ben concatenati, ma non è difficile scorgere tracce di shorterismo avvolte in mood coltraniano, mentre il piano suona un Monk con la destrezza di un Cecil Taylor prima maniera, non a caso l’autore, Gabriel Marciano, racconta che il brano «si ispira al suono ipnotico prodotto da un misuratore della pressione». L’ombra del costrutto shorteriano, calato in un’ambientazione sospesa ed onirica si materializza anche nelle spire di «Three Sides», dove la retroguardia ritmica sembra muoversi con passo serpentino guidata da un piano che scandisce le note, centellinandole con un perfetto dosaggio e sviluppando un imprevedibile lirismo. «Mooncake» s’innesta in un humus vicino ai Messengers, in cui faceva da capomastro Horace Silver, con il piano che opera su una progressione frammentata ma di grande effetto, mentre il sax sviluppa un intarsio modale lavorando sugli spigoli del costrutto armonico. «Vu» è un vetrina espositiva per il contrabbassista, il cui walking diventa quasi cantabile ed a cui gli altri strumenti fanno da eco ampliando lo spettro melodico del tema. «Timothy Treadwell», ispirato alla storia dell’animalista omonimo, è una breve traccia, quasi un interludio dall’aura davisiana, imperniato su un telaio blues piuttosto limaccioso e meditabondo. «Papageno», ispirato ad un personaggio dell’opera di Mozart «Il Flauto Magico» rivela ancora un’atmosfera misteriosa e filmica che rimanda a «Speak No Evil» di Wayne Shorter, con un’intelaiatura elasticizzata e fitta di movimenti armonici ipnotici e mutevoli.

«Ce Stà Er Tramonto», che pur iniziando come una ballata crepuscolare, prende subito quota attraverso un assortito gioco di squadra, dove i protagonisti del line-up s’involano, uno dopo l’altro, sulle ali di un garbato hard bop ricco di swing e qualche linea di febbre funkified. «Veleno per tori» assume le sembianze un bop post-monkiano dal tema minimale e sinistro, basato su una pulsazione fast swing segnata da una sonorità abrasiva e dissonante, ricca di cambi, anfratti umorali, epilettico ed in preda alla velocità. «N.H.K» è uno scandaglio profondo e sotterraneo basato su un tormentato tema, in cui la dissonanza surclassa la risonanza ergendosi a regola d’arte, mentre i fiati di prima linea battibeccano in maniera asimmetrica; dal canto suo il contrabbasso fa da collettore alle parti mancanti. L’album si conclude con «Father’s Day», un intreccio caleidoscopico corale e sinergico sul modello Jazz Messengers, dove sembra di sentire Lee Morgan che sogna di essere Clifford Brown accompagnato da Max Roach, anche se la dimensione dell’habitat sonoro appare simile ad un triangolo isoscele, spinoso e con gli angoli irregolari. «Introducing Wasted Generation» è un album davvero extra moenia ed extraordinaire rispetto al circolo vizioso del jazz sottovuoto spinto. Il merito del concept, nonostante abbia di fronte un’ampia narrativa e tanti modelli di riferimento, è che non subisce mai oppressivamente le ombre inquietanti degli spettri del passato crogiolandosi troppo a guardare nello specchietto retrovisore.

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